Venere nella conchiglia - Giuseppe Bezzuoli
Elegie Duinesi VII – Rainer Maria
Rilke
Finito
è il tempo del corteggiamento, voce matura, che la natura
del
tuo grido non sia più il; corteggiare, certo,
tu
lanceresti un puro richiamo come l’uccello,
quando
la stagione che avanza lo fa alzare, quasi dimentico
di
essere un misero animale e non solamente un cuore
gettato
nel sereno, nell’intimo dei cieli. Come lui,
lanceresti
il tuo richiamo d’amore, senza dubbio – così che, ancora invisibile,
silenziosa,
ti senta l’amica, nella quale una risposta
si
sveglia lenta e nell’ascolto si appassiona –
la
sua emozione accesa dall’ardimento della tua.
Oh
e la primavera lo accoglierebbe -, non v’è luogo
In
cui non risuoni l’eco di una annunciazione. Prima un’esile nota
come
una domanda che, con la quiete cresce,
aumenta
nel silenzio l’affermazione pura del giorno.
Poi,
per gradi, il richiamo sale fino al sognato
tempio
del futuro -; poi il trillo, fontana
che
con la pressione del getto anticipa la cascata
in
un gioco pieno di promesse … e, imminente, l’estate.
Non
solo i mattini tutti dell’estate -, non solo
come
si trasformano nel giorno e splendono di cominciamento.
Non
solo i giorni che sono teneri coi fiori, e in alto,
cogli
alberi formati, vigorosi ed immensi.
Non
solo il fervore di queste energie spiegate,
non
solo i sentieri, non solo i prati, la sera,
non
solo dopo un temporale tardivo, il respiro della schiarita,
non
solo il sonno che si approssima e un presagio, la sera …
ma
le notti! Ma le notti sublimi dell’estate,
ma
le stelle, le stelle della terra.
Oh
essere morti una volta e conoscerle infinitamente
Tutte
le stelle: perché come, come, come dimenticarle.
Vedi,
qui chiamerei l’innamorata. Ma solo lei
verrebbe
… Verrebbero in tante da fragili tombe
e
starebbero là … Perché, come potrei limitare il grido,
come,
dopo averlo lanciato? I sommersi cercano
sempre
ancora la terra -. Voi ragazzi, una cosa di qui
vissuta
pienamente una volta, conterebbe per molte.
Non
pensate che il destino sia più che lo spessore dell’infanzia;
quante
volte sorpassaste l’amato, ansimando,
ansimando
dopo una corsa estatica, verso nulla, all’aperto.
Essere
qui è stupendo. Voi lo sapevate, ragazze, anche voi,
che
sembravate mancare di tutto e sprofondaste -, voi, nei peggiori
vicoli
della città, guastandovi o aperte
al
degrado. Poiché ciascuna ebbe un’ora, forse neanche
un’ora
intera, qualcosa appena misurabile
con
la misura del tempo, tra due istanti -, là anche lei conobbe
un’esistenza.
Tutto. Le venne piene di esistenza.
Solo,
noi dimentichiamo troppo facilmente quello che il vicino
Che
ride non ci invidia o non ci convalida. Noi la vogliamo innalzare
visibilmente,
quando invece la visibilità più visibile
ci
si manifesta solo quando la trasformiamo dentro.
Dentro,
amore, sarà il mondo, e non altrove. La nostra
vita
va avanti per trasformazioni. E a poco a poco
l’esterno
scompare. Dove una volta c’era una casa durevole
emerge
una struttura inventata, di sghembo, interamente
nell’ambito
del pensabile, come se fosse ancora tutta nel cervello.
Lo
spirito dei tempi accumula vaste riserve di energia, informe,
come
l’impulso elettrico che trae da ogni cosa.
Il
tempio non lo conosce più. Questa larghezza, quella del cuore,
la
serbiamo ora più segretamente. Si: dove una cosa ancora sopravvive,
una
cosa una volta pregata, una cosa servita, in ginocchio -,
passa
così com’è nell’invisibile.
Molti
non la percepiscono più, però, senza il vantaggio
di
costruirla adesso nell’intimo, con
statue e pilastri, più grande!
Ogni
girata opaca del mondo ha i suoi diseredati,
cui
il passato non appartiene più, e ciò che è prossimo non ancora.
Perché
anche ciò che è prossimo è lontano per gli uomini. Noi
non
ci lasceremo turbare da questo; rafforzi in noi il mantenimento
della
forma ancora riconosciuta. – Questa visse
una volta tra gli uomini,
visse
nel mezzo del destino – devastante -, nel mezzo
del
non-saper-dove visse, come fosse esistenza, e curvò stelle
verso
di sé da cieli sicuri. Angelo,
anche
a te la mostro, ecco! Che nel tuo sguardo
sia
salvata una volta per tutte, ora finalmente dritta.
Colonne,
pilastri, la sfinge,la grigia aspirazione verso l’alto,
di
una città sconosciuta o che scompare, del duomo.
Non
era stupendo? Oh angelo, strabilia, perché noi
siamo,
noi,
o tu che sei grande, racconta che noi siamo stati capaci di tanto, il fiato
non
mi basta per lodare. Poiché in verità
non
abbiamo trascurato gli spazi, questi rassicuranti, questi
nostri spazi. (Come devono essere
terribilmente grandi,
che
dopo millenni non straripano con la nostre sensazioni.)
ma
una torre era grande, non è vero? Oh angelo, lo era -,
grande
anche quando vicina a te? Chartres era grande -, e la musica
arrivava
ancora più in alto e ci superava. E pure
anche
solo un’innamorata -, sola alla finestra, di notte …
non
ti arriva forse alle ginocchia -?
Non credere che io non ti corteggi.
Angelo,
e se anche ti corteggiassi! Tu non vieni. Perché la mia
chiamata
è sempre piena di altrove; contro una corrente così forte
non
puoi avanzare. Il mio grido
è
come un braccio teso. E la sua mano alzata
e
aperta ad afferrare, aperta resta,
come
a difesa e a monito, davanti a te,
o
inafferrabile, spalancata.