Pagine

31 luglio 2017

da Cent’anni di solitudine – Gabriel Garcìa Màrquez

opera di Michael and Inessa Garmash

da Cent’anni di solitudine  – Gabriel Garcìa Màrquez
(…)

... Appena si affacciava all’adolescenza Remedios la bella era già la creatura più bella che si fosse mai vista a Macondo. Era di una bellezza inquietante tanto che Ursula non la faceva uscire di casa se non per andare a messa ma costringendola comunque a coprirsi la faccia con uno scialle nero. Gli uomini frequentavano la chiesa con l’unico proposito di vedere anche solo per un attimo il viso di Remedios della cui avvenenza leggendaria si parlava con un fervore rimescolante in tutta la palude. Passò molto tempo prima che ci riuscissero e meglio sarebbe stato per loro che l’occasione non fosse mai giunta perché la maggior parte di loro non  poté mai più ricuperare la tranquillità del sonno. In realtà, Remedios la bella non era un essere di questo mondo. Pur molto avanti nella pubertà, non sapeva badare a se stessa e, anche quando cominciò a farlo, bisognava comunque sorvegliarla perché non disegnasse pupazzetti sui muri con un bastoncino intinto nella sua stessa cacca. Compì i venti anni senza saper né leggere, né scrivere, né servirsi delle posate a tavola, e girava nuda per la casa perché la sua natura si opponeva a qualsiasi tipo di convenzionalismo. Gli uomini non riuscirono mai a capire che non era una criminale provocazione la sfacciataggine con la quale si scopriva le cosce per sopportare meglio il caldo, e il gusto col quale si succhiava le dita dopo aver mangiato con le mani. Remedios la bella emanava un alito di conturbamento e una raffica di angoscia: gli uomini affermavano di non aver mai sofferto un’ansietà simile a quella che produceva l’odore naturale di Remedios. Dopo la morte di quattro uomini che erano in qualche modo entrati a contatto con Remedios si cominciò a pensare che ella avesse poteri di morte. Benché certi uomini dalla parola facile si compiacessero di affermare che valeva la pena di sacrificare la vita per una notte d’amore con una donna così conturbante; la verità era che nessuno mosse un dito per cimentarvisi. Forse, non solo per farla capitolare ma altresì per scongiurarne i pericoli, sarebbe bastato un sentimento tanto primitivo e semplice, come l’amore, ma quella fu l’unica cosa che non venne mai in mente a nessuno. Remedios la bella rimase così a vagare per il deserto della solitudine e nei suoi profondi e prolungati silenzi senza ricordi, fino ad un pomeriggio di marzo in cui Fernanda volle piegare in giardino le sue lenzuola di fiandra e chiese aiuto alle donne di casa, tra cui Remedios che, mentre piegava le lenzuola, improvvisamente cominciò a sollevarsi verso il cielo e a salutare con la mano tra l’abbagliante palpitare delle lenzuola che salivano con lei  e si perdevano per sempre nelle alte arie dove non potevano raggiungerla nemmeno i più alti uccelli della memoria.

(…)

da Cent’anni di solitudine – Gabriel Garcìa Màrquez



da Cent’anni di solitudine  – Gabriel Garcìa Màrquez
(…)
José Arcadio Buendìa ignorava completamente la geografia della regione. Sapeva che verso oriente c'era la sierra impenetrabile e al di là della sierra l'antica città di Riohacha , dove in epoche remote – come gli aveva raccontato il primo Aureliano Buendìa, suo nonno – Sir Francis Drake si dava allo sport di cacciare i caimani a cannonate; poi li faceva rammendare e riempire di paglia per portarli alla regina Isabella. Nella sua gioventù, lui e i suoi uomini, con donne e bambini e animali ed ogni sorta di utensili domestici, avevano attraversato la sierra in cerca di uno sbocco sul mare, e dopo ventisei mesi avevano abbandonato l'impresa e fondato Macondo per non dover intraprendere il cammino di ritorno. Era, quindi, una via che non gli interessava, perché poteva condurlo soltanto al passato. Verso sud c'erano i pantani, coperti da una eterna crema vegetale, e il vasto universo della palude grande, che secondo la testimonianza degli zingari non aveva confini. La palude grande si confondeva a occidente con una distesa acquatica senza orizzonti, dove c'erano cetacei dalla pelle delicata con testa e busto di donna, che perdevano i naviganti con la malia delle loro teste madornali. Gli zingari navigavano per sei mesi su quella rotta prima di raggiungere il nastro di terraferma sul quale passavano le mule della posta.
In base ai calcoli di José Arcadio Buendìa, l'unica possibilità di contatto con la civiltà era il cammino del nord. Perciò munì di utensili per disboscare e di armi da caccia gli stessi uomini che lo avevano accompagnato nella fondazione di Macondo: buttò in uno zaino i suoi strumenti di orientamento e le sue mappe, e intraprese la temeraria avventura.
Durante i primi giorni non incontrarono seri ostacoli. Scesero lungo la pietrosa sponda del fiume fino al luogo in cui anni prima avevano trovato l'armatura del guerriero, e lì penetrarono nel bosco per un sentiero di aranci silvestri. Alla fine della prima settimana, uccisero e arrostirono un cervo, ma si accontentarono di mangiarne la metà e di salare il resto per i prossimi giorni. Con questa precauzione cercavano di rimandare la necessità di continuare a nutrirsi di pappagalli, la cui carne bluastra aveva un aspro odore di muschio. Poi, per più di dieci giorni, non rividero il sole. La terra diventò molle e umida, come cenere vulcanica, e la vegetazione fu sempre più insidiosa e si fecero sempre più lontani i trilli degli uccelli e lo schiamazzo delle scimmie, e il mondo diventò triste per sempre. Gli uomini della spedizione si sentirono oppressi dai loro ricordi più antichi in quel paradiso di umidità e di silenzio, anteriore al peccato originale, dove gli stivali affondavano in pozze di oli fumanti e i machetes facevano a pezzi gigli sanguinosi e salamandre dorate. Per una settimana, quasi senza parlare, avanzarono come sonnambuli in un universo di afflizione, appena illuminati dal tenue riverbero di insetti luminosi e coi polmoni oppressi da un soffocante odore di sangue. Non potevano ritornare, perché il sentiero che andavano aprendo al loro passaggio tornava a chiudersi in poco tempo, con una vegetazione nuova che vedevano crescere quasi sotto i loro occhi. "Non importa," diceva José Arcadio Buendìa. "L'essenziale
è non perdere l'orientamento." Affidandosi sempre alla bussola, continuò a guidare i suoi uomini verso il nord invisibile, finché pervennero ad uscire dalla regione incantata. Era una notte fonda, senza stelle, ma l'oscurità era impregnata di un'aria nuova e pulita. Sfiniti per la lunga traversata, appesero le amache e dormirono profondamente per la prima volta dopo due settimane. Quando si svegliarono, già col sole alto, rimasero stupefatti. Davanti a loro, circondato da felci e palme, bianco e polveroso nella silenziosa luce del mattino, c'era un enorme galeone spagnolo. Leggermente piegato a tribordo, dalla sua alberatura intatta pendevano i brandelli squallidi della velatura, tra sartie adorne di orchidee. Lo scafo, coperto da una nitida corazza di remora pietrificata e di musco tenero, era fermamente inchiavardato in un pavimento di pietre. Tutta la struttura sembrava occupare un ambito proprio, uno spazio di solitudine e di dimenticanza, vietato ai vizi del tempo e alle abitudini degli uccelli. Nell'interno, che la spedizione esplorò con un prudente fervore, non c'era altro che un fitto bosco di fiori.
Il ritrovamento del galeone, indizio della vicinanza del mare, frantumò l'impeto di José Arcadio Buendìa. Riteneva una burla del suo avverso destino l'aver cercato il mare senza trovarlo, a costo di sacrifici e patimenti incalcolabili, e trovarlo adesso che non l'aveva cercato, messo lì sulla loro strada come un ostacolo inevitabile. Molti anni dopo, il colonnello Aureliano Buendìa percorse di nuovo la regione, quando era ormai un regolare tragitto di posta, e l'unica cosa che trovò della nave fu l'ossatura carbonizzata in mezzo a un prato di papaveri. Finalmente convinto che quella storia non era stata un prodotto dell'immaginazione di suo padre, si chiese come mai quel galeone avesse potuto addentrarsi fino a quel punto in terraferma. Ma José Arcadio Buendìa non si prospettò quella preoccupazione quando trovò il mare, al termine di altri quattro giorni di viaggio, a dodici chilometri di distanza dal galeone. I suoi sogni terminarono davanti a quel mare color cenere, schiumoso e sudicio, che non meritava i rischi e i sacrifici della sua avventura.
"Diamine!" gridò. "Macondo è circondata dall'acqua da ogni parte."
(…)


30 luglio 2017

Fine d'agosto, da Feria d’agosto – Cesare Pavese

opera diAlphonse Mucha


da Feria d’agosto – Cesare Pavese
Fine d'agosto

Una notte di agosto, di quelle agitate da un vento tiepido e tempestoso, camminavamo sul marciapiede indugiando e scambiando rade parole. Il vento che ci faceva carezze improvvise, m'impresse su guance e labbra un'ondata odorosa, poi continuò i suoi mulinelli tra le foglie già secche del viale. Ora, non so se quel tepore sapesse di donna o di foglie estive, ma il cuore mi traboccò improvvisamente, tanto che mi fermai.
Clara attese, semivoltata, che riprendessi a camminare. Quando alla svolta c'investì un'altra folata, Clara fece per soffermarsi, senza levare gli occhi, un'altra volta in attesa. Davanti al portone, mi chiese se volevo far luce o passeggiare ancora. Restai un poco fermo sul marciapiede - ascoltai il fruscio d'una foglia secca trascinata sull'asfalto - e dissi a Clara che salisse, l'avrei subito seguita.
Quando, dopo un quarto dora, giunsi di sopra, mi sedetti a fumare alla finestra fiutando il vento, e Clara mi chiese attraverso la porta della stanza se mi ero calmato. Le dissi che l'aspettavo e, un istante dopo, mi fu accanto nella stanza buia, si appoggiò contro la mia sedia e si godeva il tepore del vento senza parlare. In quell'estate eravamo quasi felici, non ricordo che avessimo mai litigato e passavamo lunghe ore accanto prima di addormentarci. Clara capisce tutto, e a quei tempi mi voleva bene; io ne volevo a lei e non c'era bisogno di dircelo. Eppure so adesso che le nostre disgrazie cominciarono quella notte.
Se Clara si fosse almeno irritata per la mia agitazione, e non mi avesse atteso con tanta docilità. Poteva chiedermi che cosa mi fosse preso, poteva tentare lei stessa d'indovinarlo, tanto più che l'aveva intuito - ma non tacere, come fece, piena di comprensione. Io detesto la gente sicura di sé, e per la prima volta detestai Clara.
Quel turbine di vento notturno mi aveva, come succede, inaspettatamente riportato sotto la pelle e le narici una gioia remota, uno di quei nudi ricordi segreti come il nostro corpo, che gli sono si direbbe connaturati fin dall'infanzia. La spiaggia dove sono nato si popolava nell'estate di bagnanti e cuoceva sotto il sole. Erano tre, quattro mesi di una vita sempre inaspettata e diversa, agitata, scabrosa, come un viaggio o un trasloco. Le casette e le viuzze formicolavano di ragazzi, di famiglie, di donne seminude al punto che non mi parevano donne e si chiamavano le bagnanti. I ragazzi invece avevano dei nomi come il mio. Facevo amicizia e li portavo in barca, o scappavo con loro nelle vigne. I ragazzi delle bagnanti volevano stare alla marina dal mattino alla sera: faticavo per condurli a giocare dietro i muriccioli, sui poggi, su per la montagna. Tra la montagna e il paese c'erano molte ville e giardini, e nei temporali di fine stagione le burrasche s'impregnavano di sentori vegetali e torridi che sapevano di fiori spiaccicati sui sassi.
Ora, Clara lo sa che le folate notturne mi ricordano quei giorni. E mi ammira - o mi ammirava - tanto, che sorride e tace quando vede questo ricordo sorprendermi. Se gliene parlo e faccio parte, quasi mi salta al collo. È per questo che non sa che quella notte mi accorsi di detestarla.
C'è qualcosa nei miei ricordi d'infanzia che non tollera la tenerezza carnale di una donna - sia pure Clara. In quelle estati che hanno ormai nel ricordo un colore unico, sonnecchiano istanti che una sensazione o una parola riaccendono improvvisi, e subito comincia lo smarrimento della distanza, l'incredulità di ritrovare tanta gioia in un tempo scomparso e quasi abolito. Un ragazzo - ero io? - si fermava di notte sulla riva del mare - sotto la musica e le luci irreali dei caffè - e fiutava il vento - non quello marino consueto, ma un'improvvisa buffata di fiori arsi dal sole, esotici e palpabili. Quel ragazzo potrebbe esistere senza di me; di fatto, esistette senza di me, e non sapeva che la sua gioia sarebbe dopo tanti anni riaffiorata, incredibile, in un altro, in un uomo. Ma un uomo suppone una donna, la donna; un uomo conosce il corpo di una donna, un uomo deve stringere, carezzare, schiacciare una donna, una di quelle donne che hanno ballato, nere di sole, sotto i lampioni dei caffè davanti al mare. L'uomo e il ragazzo s'ignorano e si cercano, vivono insieme e non lo sanno, e ritrovandosi han bisogno di star soli.
Clara, poveretta, mi volle bene quella notte come sempre. Forse me ne volle di più, perché anche lei ha le sue malizie. Noi giochiamo qualche volta a rialzare fra noi il mistero, a intuire che ciascuno è per l'altro un estraneo, e così sfuggire alla monotonia. Ma ormai io non potevo più perdonarle di essere una donna, una che trasforma il sapore remoto del vento in sapore di carne.