da “Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò
a volare” - Luis Sepúlveda
Kengah aprì le ali
per spiccare il volo, ma l’onda densa fu più rapida e la sommerse
completamente. Quando tornò a galla la luce del giorno era scomparsa, e dopo
aver scosso il capo con energia capì che la maledizione dei mari le stava
oscurando la vista.
Kengah, la gabbiana
dalle piume d’argento, tuffò varie volte la testa sott’acqua, sinché qualche
filo di luce non raggiunse le sue pupille coperte di petrolio. La macchia
vischiosa, la peste nera, le incollava le ali al corpo, così iniziò a muovere
le zampe sperando di potersi allontanare rapidamente a nuoto dal centro
dell’onda scura.
Con tutti i muscoli
tormentati dai crampi per lo sforzo, raggiunse finalmente il limite della
macchia di petrolio e sentì il fresco contatto dell’acqua pulita. Quando, a
forza di sbattere le palpebre e di tuffare la testa, riuscì a pulirsi gli
occhi, guardò il cielo, ma vide solo alcune nuvole che si frapponevano tra il
mare e l’immensità della volta celeste. I suoi compagni
dello stormo del Faro
della Sabbia Rossa dovevano volare ormai lontano, molto lontano. Era la legge.
Anche lei aveva visto altri gabbiani sorpresi dalle mortifere onde nere, e
nonostante il desiderio di scendere a offrire loro un aiuto tanto inutile
quanto impossibile, si era allontanata, rispettando la legge che proibisce di
assistere alla morte dei compagni. Con le ali immobilizzate, incollate ai
corpi, i gabbiani erano facile preda dei grandi pesci, o morivano lentamente,
asfissiati dal petrolio che penetrando fra le piume tappava loro tutti i pori. Era
questa la morte che la aspettava, e desiderò scomparire presto tra le fauci di
un grosso pesce.
La macchia nera. La
peste nera. Mentre aspettava la fine fatale, Kengah maledisse gli umani.
«Ma non tutti. Non
devo essere ingiusta» stridette debolmente.
Spesso, dall’alto,
aveva visto come grandi petroliere approfittavano delle giornate di nebbia
costiera per andare al largo a lavare le loro cisterne. Rovesciavano in mare
migliaia di litri di una sostanza densa e pestilenziale che veniva trascinata
via dalle onde. Ma a volte aveva visto anche delle piccole imbarcazioni che si
avvicinavano alle petroliere e impedivano loro di svuotare le cisterne.
Disgraziatamente quelle barche ornate dai colori
dell’arcobaleno non
sempre arrivavano in tempo per impedire l’avvelenamento dei mari. Kengah passò
le ore più lunghe della sua vita posata sull’acqua, chiedendosi atterrita se
per caso non la aspettava la più terribile delle morti: peggio che essere
divorata da un pesce, peggio che patire l’angoscia dell’asfissia, era morire di
fame.
Disperata all’idea di
una fine lenta si agitò, e con stupore si accorse che il petrolio non le aveva
incollato le ali al corpo. Aveva le piume impregnate di quella sostanza densa,
ma almeno poteva spiegarle.
«Forse ho ancora una
possibilità di uscire da qui, e volando in alto, molto in alto, forse il sole
scioglierà il petrolio» stridette Kengah.
Le tornò alla mente
una storia, raccontatale da un vecchio gabbiano delle isole Frisoni, che
parlava di un umano chiamato Icaro che, per realizzare il sogno del volo, si
era costruito delle ali con piume di aquila ed era volato in alto, vicinissimo
al sole, tanto che il calore aveva sciolto la cera con cui aveva incollato le
piume ed era precipitato.
Kengah batté
energicamente le ali, ritirò le zampe, si innalzò di un paio di palmi, e
ricadde sulle onde. Prima di tentare ancora si immerse e agitò le ali sott’acqua.
Questa volta salì di un metro prima di cadere.
Quel dannato petrolio
le incollava le piume della coda, di modo che non riusciva a governare il
decollo. Si tuffò ancora una volta e con il becco cercò di tirar via lo strato
di sporco che le copriva la coda. Sopportò il dolore delle piume strappate, e
finalmente vide la sua parte posteriore un po’ meno lurida.
Al quinto tentativo
Kengah riuscì a spiccare il volo.
Batteva le ali con
disperazione perché il peso della cappa di petrolio non le permetteva di
planare. Un solo attimo di riposo e sarebbe precipitata. Per fortuna era una
gabbiana giovane e i suoi muscoli rispondevano adeguatamente.
Guadagnò quota. Senza
mai smettere di battere le ali guardò giù e vide la costa profilarsi appena
come una linea bianca. Vide anche alcune barche che si muovevano come minuscoli
oggetti su un panno blu. Volò ancora più alto, ma il sole non ebbe gli effetti
sperati. Forse i suoi raggi emanavano un calore troppo debole, o la cappa di
petrolio era troppo spessa.
Kengah capì che le
forze non le sarebbero durate ancora a lungo e, cercando un posto per scendere,
volò verso l’entroterra, seguendo la serpeggiante linea verde dell’Elba. Il
movimento delle sue ali si fece sempre più lento e pesante. Perdeva vigore.
Adesso non volava più così in alto.
In un disperato
tentativo di riprendere quota chiuse gli occhi e batté le ali con le ultime
energie. Non sapeva per quanto tempo era rimasta a occhi chiusi, ma quando li
riaprì stava sorvolando un’alta torre ornata da una banderuola d’oro.
«San Michele!»
stridette riconoscendo il campanile della chiesa di Amburgo.
Le sue ali si
rifiutarono di continuare a volare.
Traduzione
di Ilide Carmignani