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7 giugno 2015

Ultimo amore - Arturo Graf

Tiziano - Venere con suonatore di liuto

Ultimo amore - Arturo Graf

I.
Era il suo primo amor, l’ultimo mio!
Gli anni senza mercè faccian lor corso,
Dieno pur nel mio cor, dieno di morso;
Esso trionferà gli anni e l’obblio.
Dolce ricordo, angustïoso e pio;
Mia suprema sciagura e mio conforto!
Meco vivrà, morrà quand’io sia morto:
Era il suo primo amor, l’ultimo mio!
II.
Di sua persona ell’era esile e sciolta,
Tutta una gentilezza ed un candore;
A volerla abbracciar solo una volta
Temuto avresti di spezzarne il fiore.
Un soave nitor di fiordaliso
Nel suo volto di vergine splendeva;
Breve e di rado l’allegrava un riso,
Ma inteneriva il cor quando rideva.
Era la fronte sua d’un velo ingombra
Di dolor consueto, intimo, arcano;
Tremar parea ne’ suoi grand’occhi l’ombra
D’alcuna cosa sospirata invano.
E spesso, senza usar d’altra favella,
Lo sguardo nell’altrui volto fissava,
Seria, sicura: l’anima cercava
Inconsciamente l’anima sorella.
E della prima volta mi rammento
Che così gli occhi nel mio volto mise:
Quando li richinò dopo un momento
Arrossì leggermente e poi sorrise.
III.
L’anima giovinetta ancor non era
liberamente nel suo fior dischiusa
E già d’una ineffabile, severa
Mestizia tutta si vedea suffusa.
Ombra d’arcane ritrosie, secreto
Antiveder di tenebrosi eventi,
Un terror della vita, un inquïeto
Senso d’inevitabili cimenti,
Di villanie codarde, ove smarrita,
Senza difesa, nell’altrui balia,
Miseramente la sua stanca vita,
Il suo povero cor sciupato avria.
IV.
Come m’amò? perché m’amò, che lesse
Sulla mia fronte impallidita e china?
Indovinò l’abisso e la ruina?
Vide nel cor le cicatrici impresse?
Vide e sentì quella che l’alme lega
Comunïon d’affetto e di pensiero?
Chi mel dirà? chi gliel dirà? mistero
È supremo d’amor, nessun lo spiega.
V.
Ma io tra me diceva: I pensier miei
Sono una landa desolata e scura;
Dove porrò, dove porrò costei
Che di gel non vi muoja e di paura?
Nel mio cor c’è la morte e l’abbandono;
Una bruciata selce, ecco il mio core!
Dove trapianterò, tristo ch’io sono,
Questo leggiadro e delicato fiore?
VI.
E un dì (come m’avvenne?) un dì m’accorsi
Di cominciare a riamar; nel petto
Sentii rifar la vita e a lunghi sorsi
Bevvi la voluttà del novo affetto.
E fui lieto e sperai! ma già da tergo
M’incalzava il destin: tremando infransi
Il mio vano pensier, ruppi l’usbergo
Delle speranze mal temprate e piansi.
VII.
Giunta la sera ch’ebbi a dirle addio,
Noi l’un dell’altro sedevamo a fronte:
Moriva il sol fra mezzo a un turbinio
Di sanguinose nubi all’orizzonte.
Pallida ell’era e fredda e sbigottita,
E tutto in un pensier l’animo assorto,
Convulsamente fra le bianche dita
Volgea non so che fior gracile e smorto,
E indietro alquanto il bel capo travolto,
Ambe le man congiunte in sui ginocchi,
Senza dir verbo mi fissava in volto
E mi beveva l’anima con gli occhi.
VIII.
Più non contemplo il suo leggiadro viso,
Più ’l dolce e schietto favellar non odo,
Più non m’allieto del soave riso,
Più del gentile suo stupor non godo;
Ma della immagin sua l’anima ho piena,
Ma del ricordo il mio pensier trabocca;
Sempre in mezzo del core ho la sua pena,
Sempre il suo nome benedetto ho in bocca.
E quando in ciel regna la notte, o quando
M’occupa un greve sonno il corpo affranto,
Come un lamento soffocato e blando
Ne’ travolti miei sogni odo il suo pianto.
IX.
Poveri versi miei, nati e cresciuti
Dove raggio di sol più non arriva,
Ben sapete s’io v’ho con la più viva
Parte di me medesimo tessuti.
Poveri versi miei, s’unqua si dia
Ch’ella oda il mesto suon che in voi si frange,
Potrà saper come si strugge e piange
Lunge da lei l’afflitta anima mia.

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