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22 settembre 2015

Prima elegia - Rainer Maria Rilke

 Prima elegia - Rainer Maria Rilke

Se pur gridassi, chi mi udrebbe dalle gerarchie
degli angeli? E se uno mi stringesse d’improvviso
al cuore, soccomberei per la sua troppo forte presenza.
Perché nulla è il bello, se non l’emergenza
del tremendo: forse possiamo reggerlo ancora,
ed ammirarlo anche, perché indifferente
non degna distruggerci. Ognuno degli angeli è tremendo.
E mi trattengo così, e inghiotto l’appello d’oscuri
singulti. Ah! Chi possiamo allora chiamare in aiuto?
Gli angeli no, gli uomini no, e i sagaci
animali lo notano già quanto noi inadeguati
siamo qui di casa nel mondo già interpretato.
Ci resta forse un albero là sul pendio, che ogni giorno
possiamo rivedere; ci resta la strada di ieri e anche
l’adusata fedeltà ad una abitudine, che in noi
si è rintanata, è rimasta, e non se ne andò.
Oh, e la notte, la notte, quando il vento colmo
di cosmici spazi ci corrode il volto – a chi mai
potrebbe mancare l’agognata , che sì dolcemente disillude,
essa, che di fronte al cuore solitario penosamente
si leva ? È forse più lieve agli amanti?
Il destino lo nascondono soltanto l’un l’altro.
Non lo sai ancora ? Getta dalle tue braccia il vuoto
fin dentro gli spazi che respiriamo; forse gli uccelli
con volo più intimo sentono l’aria così dilatata.

Sì, le primavere ebbero bisogno di te. Di te cercava
qualche stella, ché tu ti mettessi sulle tue tracce.
Saliva attraverso il passato un’onda, o forse là dove
passasti, da una finestra spalancata, ti si offriva
un violino. Tutto questo era un compito. Ma tu, tu
lo potresti reggere ? Non eri forse, ancora una volta,
sempre disperso nell’attesa, come se tutto annunciasse
un’amata? (Dove vorresti custodirla, che i grandi
pensieri stranieri in te vengono, vanno, e indugiano
spesso di notte). Se lo vuoi, canta allora le amanti;
non è ancora immortale il loro sentimento famoso.
Quelle che tu quasi invidi, le abbandonate, a te
più care delle appagate. Ricomincia sempre
di nuovo l’inattingibile celebrazione; pensa:
l’eroe rimane; anche il trapassare fu per lui
solo un pretesto per essere: la sua ultima nascita.
Ma le amanti l’esausta natura in sé le riprende
di nuovo, come non ci fosse più altra forza per
questo compito. Hai parlato abbastanza di
Gaspara Stampa, così che una qualche fanciulla,
cui sfugga l’amato, ne senta dentro di sé
entusiasmante l’esempio: e se come lei fossi io ?
Non devono forse alla fine questi così antichi dolori
diventare fecondi per noi? Non è tempo che amando
ci liberiamo noi dell’amato restando frementi:
come la freccia, che è tesa alla corda, raccolta
nello scatto per essere oltre e più di se stessa.
Perché non c’è più luogo alcuno per stare.

Voci, voci. Ascolta mio cuore, come solo
i santi seppero udire: loro che l’immane richiamo
solleva dal suolo; e loro in ginocchio,
oltre il possibile, e ancora, e senza badarci:
così essi stavano in ascolto. Non che tu possa
comunque reggere la voce di Dio. Ma ascolta come spira
l’ininterrotto messaggio che dal silenzio si forma.
Sussurra ora a te di quei giovani morti.
E sempre, quando entrasti nelle chiese di Roma
o di Napoli, non ti parlava pacato del loro destino?
O sublime ti si presentò una scritta, come la lapide,
l’altro giorno, a Santa Maria Formosa.
Che vogliono da me? Devo rimuovere lievemente
l’apparenza stessa dell’ingiustizia che talvolta
un poco raffrena il movimento puro del loro spirito.

Certo, è strano non abitare più la terra,
non agire più gli usi da così poco appresi,
e alle rose, e alle altre cose piene di promesse
non dare più senso di un umano futuro;
ciò che eravamo in mani illimitatamente ansiose
non essere più, e anche il proprio nome
abbandonare come un giocattolo infranto.
Strano non desiderare più i desideri. Strano
quel che stretto si teneva vederlo dissolto
fluttuare nello spazio. E penoso essere morti:
un continuo ricercare, faticosamente in traccia
di un poco d’eternità. – Ma i viventi compiono
tutti l’errore di tracciare troppo confini netti.
Gli angeli (dicono) spesso non sanno se vanno
tra i vivi o tra i morti. L’eterna corrente
trascina attraverso entrambi i regni ogni età,
sempre con sé, ed entrambi sovrasta con il suo suono.

Non han più bisogno di noi i giovani morti, da ciò che è terreno
ci si disavvezza lievemente, come dolcemente si cresce oltre
il seno materno. Ma noi, che di così grandi segreti
abbiamo bisogno, noi a cui sovente un beato progresso
si sprigiona dal lutto -: possiamo essere senza di loro?
Vano è forse il racconto, che un tempo nel compianto di Lino
la prima musica audace pervadesse l’impietrito rigore;
che allora nello spazio sgomento, da cui sfuggì quasi divino
un fanciullo, d’improvviso e per sempre, il vuoto entrasse in
quella vibrazione, che ora trascina, consola, e ci aiuta

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