Rodin - Orfeo e Euridice
L’altra Euridice - Italo Calvino
Voi avete vinto, uomini del fuori, e avete rifatto le storie come vi piace a voi, per
condannare noi del dentro al ruolo che vi piace attribuirci, di potenze delle tenebre e
della morte, e il nome che ci avete dato, gli Inferi, lo caricate di accenti funesti. Certo,
se tutti dimenticheranno cosa veramente accadde tra noi, tra Euridice e Orfeo e me
Plutone, quella storia tutta all’incontrario da come la raccontate voi, se veramente
nessuno più ricorderà che Euridice era una di noi e che mai aveva abitato la superficie
della Terra prima che Orfeo me la rapisse con le sue musiche menzognere, allora il
nostro antico sogno di fare della Terra una sfera vivente sarà definitivamente perduto.
Già quasi nessuno ormai ricorda cosa voleva dire far vivere la Terra: non quello che
credete voi, paghi dello spolverio di vita che s’è posato sul confine tra la terra l’acqua
l’aria. Io volevo che la vita si espandesse dal centro della Terra, si propagasse alle sfere
concentriche che la compongono, circolasse tra i metalli fluidi e compatti. Questo era il
sogno di Plutone. Solo così sarebbe diventata un enorme organismo vivente, la Terra,
solo così si sarebbe evitata quella condizione di precario esilio cui la vita ha dovuto
ridursi, con il peso opaco di una palla di pietra inanimata sotto di sé, e sopra il vuoto.
Voi nemmeno più immaginate che la vita poteva essere qualcosa di diverso da quel che
avviene lì fuori, dato che sopra di voi e della crosta terrestre esiste pur sempre l’altra
tenue crosta dell’aria. Ma non c’è paragone con la successione di sfere nei cui interstizi
noi creature della profondità abbiamo sempre vissuto, e da cui ancora risaliamo a
popolare i vostri sogni. La Terra, dentro, non è compatta: è discontinua, fatta di bucce
sovrapposte di densità diverse, fin giù al nucleo di ferro e nichel, che è pur esso un
sistema di nuclei uno dentro l’altro e ognuno ruota separato dall’altro a seconda della
maggiore o minore fluidità dell’elemento.
Vi fate chiamare terrestri, non si sa con che diritto: perché il vero nome vostro sarebbe
extraterrestri, gente che sta fuori: terrestre è chi vive dentro, come me e come Euridice,
fino al giorno in cui me l’avete portata via, ingannandola, in quel vostro fuori desolato.
Il regno di Plutone è questo, perché io è qua dentro che ho sempre vissuto, insieme ad
Euridice prima, e poi da solo, in una di queste terre interne. Un cielo di pietra ruotava
sopra le nostre teste, più limpido del vostro, e attraversato, come il vostro, da nuvole, là
dove s’addensano sospensioni di cromo o di magnesio. Ombre alate si levano a volo: i
cieli interni hanno i loro uccelli, concrezioni di roccia leggera che descrivono spirali
scorrendo verso l’alto finchè non spariscono alla vista. Il tempo cambia d’improvviso:
quando scariche di pioggia plumbea si abbattono, o quando grandinano cristalli di
zinco, non c’è altro scampo che infiltrarsi nelle porosità della roccia spugnosa. A tratti
il buio è solcato da un zig zag infuocato: non è un fulmine, è metallo incandescente che
serpeggia giù per una vena.
Consideravamo terra la sfera interna sulla quale accadeva di posarci, e cielo la sfera che
circonda quella sfera: tal quale come fate voi, insomma, ma da noi queste distinzioni
erano sempre provvisorie, arbitrarie, dato che la consistenza degli elementi cambiava di
continuo, e a un certo momento ci accorgevamo che il nostro cielo era duro e compatto,
una macina che ci schiacciava, mentre la terra era una colla vischiosa, agitata da gorghi,
pullulante di bolle gassose. Io cercavo d’approfittare delle colate d’elementi più pesanti
per avvicinarmi al vero centro della Terra, al nucleo che fa da nucleo di ogni nucleo, e
tenevo per mano Euridice, guidandola nella discesa. Ma ogni infiltrazione che apriva la
sua via verso l’interno, scalzava dell’altro materiale e l’obbligava a risalire verso la
superficie: alle volte nel nostro sprofondare venivamo accolti dall’ondata che
zampillava verso gli strati superiori e che ci arrotolava nel suo ricciolo. Così
ripercorrevamo in senso inverso il raggio terrestre; negli strati minerali si aprivano
meati che ci aspiravano e sotto di noi la roccia tornava a solidificarsi. Finchè non ci
ritrovavamo sostenuti da un altro suolo e sovrastati da un altro cielo di pietra, senza
sapere se eravamo più in alto o più in basso del punto donde eravamo partiti.
Euridice appena vedeva sopra di noi il metallo di un nuovo cielo farsi fluido, era presa
dall’estro di volare. Si tuffava verso l’alto, attraversava a nuoto la cupola di un primo
cielo, d’un altro, di un terzo, s’aggrappava alle stalattiti che pendevano dalle volte più
alte. Io le tenevo dietro, un po’ per secondare il suo gioco, un po’ per ricordarle di
riprendere il nostro cammino in senso opposto. Certo, anche Euridice era convinta
come me che il punto cui dovevamo tendere era il centro della Terra. Solo raggiunto il
centro potevamo dire nostro tutto il pianeta. Eravamo i capostipiti della vita terrestre e
per questo dovevamo incominciare a render la Terra vivente nel suo nucleo, irradiando
via via la nostra condizione a tutto il globo. Alla vita terrestre, tendevamo, cioè della
Terra e nella Terra; non a ciò che spunta dalla superficie e voi credete di poter chiamare
vita terrestre mentre è solo una muffa che dilata le sue macchie sulla scorza rugosa
della mela.
Sotto i cieli di basalto già vedevamo sorgere le città plutoniche che avremmo fondato,
circondate da mura di diaspro, città sferiche e concentriche, naviganti, su oceani di
mercurio, attraversate da fiumi di lava incandescente. Era un corpo vivente-cittàmacchina
che volevamo crescesse e occupasse tutto il globo, una macchina tellurica che
avrebbe adoperato la sua energia smisurata per costruirsi continuamente, per combinare
e permutare tutte le sostanze e le forme, compiendo con la velocità di una scossa
sismica il lavoro che voi là fuori avete dovuto pagare col sudore di secoli. E questa
città-macchina-corpo vivente sarebbe stata abitata da esseri come noi, giganti che dai
cieli rotanti avrebbero proteso il loro membruto abbraccio sopra gigantesse che nelle
rotazioni delle terre concentriche si sarebbero esposte in sempre nuove positure
rendendo possibili sempre nuovi accoppiamenti.
Era il regno della diversità e della totalità che doveva prendere origine da quelle
mescolanze e vibrazioni: era il regno del silenzio e della musica. Vibrazioni continue,
propagatesi con diversa lentezza, a seconda delle profondità e della discontinuità dei
materiali, avrebbero increspato il nostro grande silenzio, l’avrebbero trasformato nella
musica incessante del mondo, nella quale si sarebbero armonizzate le voci profonde
degli elementi.
Questo per dirvi com’è sbagliata la vostra via, la vostra vita, dove lavoro e godimento
sono in contrasto, dove la musica e il rumore sono divisi; questo per dirvi come fin da
allora le cose fossero chiare, e il canto d’Orfeo non fosse altro che un segno di questo
vostro mondo parziale e diviso. Perché Euridice cadde nella trappola? Apparteneva
interamente al nostro mondo, Euridice, ma la sua indole incantata la portava a
prediligere ogni stato di sospensione, e appena le era dato di librarsi in volo, in balzi, in
scalate dei camini vulcanici, la si vedeva atteggiare la sua persona in torsioni e falcate e
cabrate e contorsioni.
I luoghi di confine, i passaggi da uno strato terrestre all’altro, le davano una sottile
vertigine. Ho detto che la Terra è fatta di tetti sovrapposti, come involucri di un
cipollone immenso, e che ogni tetto rimanda a un tetto superiore, e tutti insieme
preannunciano il tetto estremo, là dove la Terra finisce d’esser Terra, dove tutto il
dentro resta al di qua, e al di là c’è solo il fuori. Per voi questo confine della Terra si
identifica con la Terra stessa; credete che la sfera sia la superficie che la fascia, non il
volume; siete sempre vissuti in quella dimensione piatta piatta e non supponete
nemmeno che si possa esistere altrove e altrimenti; per noi allora questo confine era
qualcosa che si sapeva che c’era ma non immaginavamo di poter vedere, a meno
d’uscire dalla Terra, prospettiva che ci pareva, ancor più che paurosa, assurda. Era là
che veniva proiettato in eruzioni e zampilli bituminosi e soffioni tutto ciò che la Terra
espelleva dalle sue viscere: gas, miscele liquide, elementi volatili, materiali di poco
conto, rifiuti d’ogni genere. Era il negativo del mondo, qualcosa che non potevamo
raffigurare nemmeno col pensiero, e la cui astratta idea bastava a provocare un brivido
di disgusto, no: d’angoscia, o meglio, uno stordimento, una – appunto – vertigine (ecco,
le nostre reazioni erano più complicate di quello che si può credere, specialmente quelle
di Euridice), e vi s’insinuava una parte di fascinazione, come un’attrazione del vuoto,
del bifronte, dell’ultimo.
Seguendo Euridice in questi suoi estri vaganti, infilammo la gola di un vulcano spento.
Sopra di noi, attraversando come una strozzatura di clessidra, s’aperse la cavità del
cratere, grumosa e grigia, un paesaggio non molto diverso, per forma e sostanza, dai
soliti delle nostre profondità; ma ciò che ci fece restare attoniti era il fatto che la Terra
lì si fermava, non ricominciava a gravare su se stessa sotto altro aspetto, e di lì in poi
cominciava il vuoto, o comunque una sostanza incomparabilmente più tenue di quelle
che avevamo fino allora attraversato, una sostanza trasparente e vibrante, l’aria azzurra.
Furono queste vibrazioni a perdere Euridicie, così diverse da quelle che si propagano
lente attraverso il granito e il basalto, diverse da tutti gli schiocchi, i clangori, i cupi
rimbombi che percorrono torpidamente le masse dei metalli fusi o le muraglie
cristalline. Qui le venivano incontro come uno scoccare di scintille sonore minute e
puntiformi che si succedevano a una velocità per noi insostenibile da ogni punto dello
spazio: era una specie di solletico che metteva addosso una smania incomposta. Ci
prese – o, almeno, mi prese: da qui in poi sono costretto a distinguere gli stati d’animo
miei da quelli di Euridice – il desiderio di ritrarci nel nero fondo di silenzio su cui l’eco
dei terremoti passa soffice e si perde in lontananza. Ma per Euridice, attratta come
sempre dal raro e dall’inconsulto, c’era l’impazienza d’appropriarsi di qualcosa
d’unico, buono o cattivo che fosse.
Fu in quel momento che scattò l’insidia: oltre l’orlo del cratere l’aria vibrò in modo
continuo, anzi in un modo continuo che conteneva più modi discontinui di vibrare. Era
un suono che si alzava pieno, si smorzava, riprendeva volume, e in questo modularsi
seguiva un disegno invisibile disteso nel tempo come una successione di pieni e di
vuoti. Altre vibrazioni vi si sovrapponevano, ed erano acute e ben distaccate l’una
dall’altra, ma stringevano in un alone ora dolce ora amaro, e contrapponendosi o
accompagnando il corso del suono più profondo, imponevano come un cerchio o
campo o dominio sonoro.
Subito il mio impulso fu di sottrarmi a quel cerchio, di ritornare nella densità ovattata: e
scivolai dentro il cratere. Ma Euridice, nello stesso istante, aveva preso la corsa su per i
dirupi nella direzione da cui proveniva il suono, e prima che io potessi trattenerla aveva
superato l’orlo del cratere. O fu un braccio, che la ghermì, serpentino, e la trascinò
fuori; riuscii a udire un grido, il grido di lei, che si univa al suono di prima, in armonia
con esso, in un unico canto che lei e lo sconosciuto cantore intonavano, scandito sulle
corde di uno strumento, scendendo le pendici esterne del vulcano.
Non so se quest’immagine corrisponde a ciò che vidi o a ciò che immaginai: stavo già
sprofondando nel mio buio, i cieli interni si chiudevano a uno a uno sopra di me: volte
silicee, tetti di alluminio, atmosfere di zolfo vischioso; e il variegato silenzio
sotterraneo mi echeggiava intorno coi suoi boati trattenuti, coi suoi tuoni sottovoce. Il
sollievo a ritrovarmi lontano dal nauseante margine dell’aria e dal supplizio delle onde
sonore mi prese insieme alla disperazione d’aver persa Euridice. Ecco, ero solo: non
avevo saputo salvarla dallo strazio di esser strappata alla Terra, esposta alla continua
percussione di corde tese nell’aria con cui il mondo del vuoto si difende dal vuoto. Il
mio sogni di rendere vivente la Terra raggiungendone con Euridice l’ultimo centro era
fallito. Euridice era prigioniera, esiliata nelle lande scoperchiate del fuori.
Seguì un tempo d’attesa. I miei occhi contemplavano i paesaggi fittamente premuti uno
sull’altro che riempiono il volume del globo: caverne filiformi, catene montuose
addossate in scaglie e lamine, oceani strizzati come spugne: più riconoscevo con
commozione il nostro mondo stipato, concentrato, compatto, più soffrivo che non ci
fosse Euridice ad abitarlo.
Liberarla diventò il mio solo pensiero: forzare le porte del fuori, invadere coll’interno
l’esterno, riannettere Euridice alla materia terrestre, costruire sopra di lei una nuova
volta, un nuovo cielo minerale, salvarla dall’inferno di quell’aria vibrante, di quel
suono, di quel canto. Spiavo il raccogliersi della lava nelle caverne vulcaniche, il
premere su per i condotti verticali della crosta terrestre: questa era la via.
Venne il giorno dell’eruzione, una torre di lapilli s’innalzò nera nell’aria sopra il
Vesuvio decapitato, la lava galoppava sulle vigne del golfo, forzava le porte
d’Ercolano, schiacciava il mulattiere e la bestia contro la muraglia, strappava l’avaro
alle monete, lo schiavo ai ceppi, il cane stretto dal collare sradicava la catena e cercava
scampo nel granaio. Io ero là in mezzo: avanzavo con la lava, la valanga infuocata si
frastagliava in lingue, in rivoli, in serpenti, e nella punta che si infiltrava più avanti ero
io che correvo alla ricerca di Euridice. Sapevo – qualcosa m’avvertiva – che era ancora
prigioniera dello sconosciuto cantore: dove avrei riudito la musica di quello strumento e
il timbro di quella voce, là sarebbe stata lei.
Correvo trasportato dalla colata di lava tra orti appartati e templi di marmo. Udii il
canto e un arpeggio; due voci s’alternavano; riconobbi quella d’Euridice – ma quanto
cambiata! – che teneva dietro la voce ignota. Una scritta sull’archivolto in caratteri
greci: Orpheos. Sfondai l’uscio, dilagai oltre la soglia. La vidi solo un istante, accanto
all’arpa. Il luogo era chiuso e cavo, fatto apposta – si sarebbe detto – perché la musica
vi si raccogliesse, come in una conchiglia. Una tenda pesante – di cuoio mi sembrò,
anzi imbottita come una trapunta -, chiudeva una finestra, in modo da isolare la loro
musica dal mondo circostante. Appena entrai, Euridice tirò la tenda di strappo,
spalancando la finestra; fuori s’apriva il golfo abbagliante di riflessi e la città e le vie.
La luce del mezzogiorno invase la stanza, la luce e i suoni: uno strimpellio di chitarre si
levava da ogni parte e l’ondeggiante mugghio di cento altoparlanti, e si mischiavano a
un frastagliato scoppiettio di motori e strombettio. La corazza del rumore s’estendeva
di là in poi sulla crosta del globo: la fascia che delimita la vostra vita di superficie, con
le antenne inalberate sui tetti a trasformare in suono le onde che percorrono invisibili e
inudibili lo spazio, coi transistor appiccicati agli orecchi per riempirli in ogni istante
della colla acustica senza la quale non sapete se siete vivi o morti, coi jukebox che
immagazzinano e rovesciano suoni, e l’ininterrotta sirena dell’ambulanza che raccoglie
ora per ora i feriti della vostra carneficina ininterrotta.
Contro questo muro sonoro la lava si fermò. Trafitto dalle spine del reticolato di
vibrazioni strepitanti, io feci ancora un movimento avanti verso il punto dove per un
istante avevo visto Euridice, ma lei era sparita, sparito il suo rapitore: il canto da cui e
di cui vivevano era sommerso dall’irruzione della valanga del rumore, non riuscivo più
a distinguere lei né il suo canto.
Mi ritirai, muovendomi a ritroso nella colata di lava, risalii le pendici del vulcano,
tornai ad abitare il silenzio, a seppellirmi.
Ora, voi che vivete fuori, ditemi, se per caso vi accade di cogliere nella fitta pasta di
suoni che vi circonda il canto di Euridice, il canto che la tiene prigioniera ed è a sua
volta prigioniero del non-canto che massacra tutti i canti, se riuscite a riconoscere la
voce di Euridice in cui risuona ancora l’eco lontana della musica silenziosa degli
elementi, ditemelo, datemi notizie di lei, voi extraterrestri, voi provvisoriamente
vincitori, perché io possa riprendere i miei piani per riportare Euridice al centro della
vita terrestre, per ristabilire il regno degli dei del dentro, degli dei che abitano lo
spessore denso delle cose, ora che gli dei del fuori, gli dei degli alti Olimpi e dell’aria
rarefatta vi hanno dato tutto quello che potevano dare, ed è chiaro che non basta.
Voi avete vinto, uomini del fuori, e avete rifatto le storie come vi piace a voi, per
condannare noi del dentro al ruolo che vi piace attribuirci, di potenze delle tenebre e
della morte, e il nome che ci avete dato, gli Inferi, lo caricate di accenti funesti. Certo,
se tutti dimenticheranno cosa veramente accadde tra noi, tra Euridice e Orfeo e me
Plutone, quella storia tutta all’incontrario da come la raccontate voi, se veramente
nessuno più ricorderà che Euridice era una di noi e che mai aveva abitato la superficie
della Terra prima che Orfeo me la rapisse con le sue musiche menzognere, allora il
nostro antico sogno di fare della Terra una sfera vivente sarà definitivamente perduto.
Già quasi nessuno ormai ricorda cosa voleva dire far vivere la Terra: non quello che
credete voi, paghi dello spolverio di vita che s’è posato sul confine tra la terra l’acqua
l’aria. Io volevo che la vita si espandesse dal centro della Terra, si propagasse alle sfere
concentriche che la compongono, circolasse tra i metalli fluidi e compatti. Questo era il
sogno di Plutone. Solo così sarebbe diventata un enorme organismo vivente, la Terra,
solo così si sarebbe evitata quella condizione di precario esilio cui la vita ha dovuto
ridursi, con il peso opaco di una palla di pietra inanimata sotto di sé, e sopra il vuoto.
Voi nemmeno più immaginate che la vita poteva essere qualcosa di diverso da quel che
avviene lì fuori, dato che sopra di voi e della crosta terrestre esiste pur sempre l’altra
tenue crosta dell’aria. Ma non c’è paragone con la successione di sfere nei cui interstizi
noi creature della profondità abbiamo sempre vissuto, e da cui ancora risaliamo a
popolare i vostri sogni. La Terra, dentro, non è compatta: è discontinua, fatta di bucce
sovrapposte di densità diverse, fin giù al nucleo di ferro e nichel, che è pur esso un
sistema di nuclei uno dentro l’altro e ognuno ruota separato dall’altro a seconda della
maggiore o minore fluidità dell’elemento.
Vi fate chiamare terrestri, non si sa con che diritto: perché il vero nome vostro sarebbe
extraterrestri, gente che sta fuori: terrestre è chi vive dentro, come me e come Euridice,
fino al giorno in cui me l’avete portata via, ingannandola, in quel vostro fuori desolato.
Il regno di Plutone è questo, perché io è qua dentro che ho sempre vissuto, insieme ad
Euridice prima, e poi da solo, in una di queste terre interne. Un cielo di pietra ruotava
sopra le nostre teste, più limpido del vostro, e attraversato, come il vostro, da nuvole, là
dove s’addensano sospensioni di cromo o di magnesio. Ombre alate si levano a volo: i
cieli interni hanno i loro uccelli, concrezioni di roccia leggera che descrivono spirali
scorrendo verso l’alto finchè non spariscono alla vista. Il tempo cambia d’improvviso:
quando scariche di pioggia plumbea si abbattono, o quando grandinano cristalli di
zinco, non c’è altro scampo che infiltrarsi nelle porosità della roccia spugnosa. A tratti
il buio è solcato da un zig zag infuocato: non è un fulmine, è metallo incandescente che
serpeggia giù per una vena.
Consideravamo terra la sfera interna sulla quale accadeva di posarci, e cielo la sfera che
circonda quella sfera: tal quale come fate voi, insomma, ma da noi queste distinzioni
erano sempre provvisorie, arbitrarie, dato che la consistenza degli elementi cambiava di
continuo, e a un certo momento ci accorgevamo che il nostro cielo era duro e compatto,
una macina che ci schiacciava, mentre la terra era una colla vischiosa, agitata da gorghi,
pullulante di bolle gassose. Io cercavo d’approfittare delle colate d’elementi più pesanti
per avvicinarmi al vero centro della Terra, al nucleo che fa da nucleo di ogni nucleo, e
tenevo per mano Euridice, guidandola nella discesa. Ma ogni infiltrazione che apriva la
sua via verso l’interno, scalzava dell’altro materiale e l’obbligava a risalire verso la
superficie: alle volte nel nostro sprofondare venivamo accolti dall’ondata che
zampillava verso gli strati superiori e che ci arrotolava nel suo ricciolo. Così
ripercorrevamo in senso inverso il raggio terrestre; negli strati minerali si aprivano
meati che ci aspiravano e sotto di noi la roccia tornava a solidificarsi. Finchè non ci
ritrovavamo sostenuti da un altro suolo e sovrastati da un altro cielo di pietra, senza
sapere se eravamo più in alto o più in basso del punto donde eravamo partiti.
Euridice appena vedeva sopra di noi il metallo di un nuovo cielo farsi fluido, era presa
dall’estro di volare. Si tuffava verso l’alto, attraversava a nuoto la cupola di un primo
cielo, d’un altro, di un terzo, s’aggrappava alle stalattiti che pendevano dalle volte più
alte. Io le tenevo dietro, un po’ per secondare il suo gioco, un po’ per ricordarle di
riprendere il nostro cammino in senso opposto. Certo, anche Euridice era convinta
come me che il punto cui dovevamo tendere era il centro della Terra. Solo raggiunto il
centro potevamo dire nostro tutto il pianeta. Eravamo i capostipiti della vita terrestre e
per questo dovevamo incominciare a render la Terra vivente nel suo nucleo, irradiando
via via la nostra condizione a tutto il globo. Alla vita terrestre, tendevamo, cioè della
Terra e nella Terra; non a ciò che spunta dalla superficie e voi credete di poter chiamare
vita terrestre mentre è solo una muffa che dilata le sue macchie sulla scorza rugosa
della mela.
Sotto i cieli di basalto già vedevamo sorgere le città plutoniche che avremmo fondato,
circondate da mura di diaspro, città sferiche e concentriche, naviganti, su oceani di
mercurio, attraversate da fiumi di lava incandescente. Era un corpo vivente-cittàmacchina
che volevamo crescesse e occupasse tutto il globo, una macchina tellurica che
avrebbe adoperato la sua energia smisurata per costruirsi continuamente, per combinare
e permutare tutte le sostanze e le forme, compiendo con la velocità di una scossa
sismica il lavoro che voi là fuori avete dovuto pagare col sudore di secoli. E questa
città-macchina-corpo vivente sarebbe stata abitata da esseri come noi, giganti che dai
cieli rotanti avrebbero proteso il loro membruto abbraccio sopra gigantesse che nelle
rotazioni delle terre concentriche si sarebbero esposte in sempre nuove positure
rendendo possibili sempre nuovi accoppiamenti.
Era il regno della diversità e della totalità che doveva prendere origine da quelle
mescolanze e vibrazioni: era il regno del silenzio e della musica. Vibrazioni continue,
propagatesi con diversa lentezza, a seconda delle profondità e della discontinuità dei
materiali, avrebbero increspato il nostro grande silenzio, l’avrebbero trasformato nella
musica incessante del mondo, nella quale si sarebbero armonizzate le voci profonde
degli elementi.
Questo per dirvi com’è sbagliata la vostra via, la vostra vita, dove lavoro e godimento
sono in contrasto, dove la musica e il rumore sono divisi; questo per dirvi come fin da
allora le cose fossero chiare, e il canto d’Orfeo non fosse altro che un segno di questo
vostro mondo parziale e diviso. Perché Euridice cadde nella trappola? Apparteneva
interamente al nostro mondo, Euridice, ma la sua indole incantata la portava a
prediligere ogni stato di sospensione, e appena le era dato di librarsi in volo, in balzi, in
scalate dei camini vulcanici, la si vedeva atteggiare la sua persona in torsioni e falcate e
cabrate e contorsioni.
I luoghi di confine, i passaggi da uno strato terrestre all’altro, le davano una sottile
vertigine. Ho detto che la Terra è fatta di tetti sovrapposti, come involucri di un
cipollone immenso, e che ogni tetto rimanda a un tetto superiore, e tutti insieme
preannunciano il tetto estremo, là dove la Terra finisce d’esser Terra, dove tutto il
dentro resta al di qua, e al di là c’è solo il fuori. Per voi questo confine della Terra si
identifica con la Terra stessa; credete che la sfera sia la superficie che la fascia, non il
volume; siete sempre vissuti in quella dimensione piatta piatta e non supponete
nemmeno che si possa esistere altrove e altrimenti; per noi allora questo confine era
qualcosa che si sapeva che c’era ma non immaginavamo di poter vedere, a meno
d’uscire dalla Terra, prospettiva che ci pareva, ancor più che paurosa, assurda. Era là
che veniva proiettato in eruzioni e zampilli bituminosi e soffioni tutto ciò che la Terra
espelleva dalle sue viscere: gas, miscele liquide, elementi volatili, materiali di poco
conto, rifiuti d’ogni genere. Era il negativo del mondo, qualcosa che non potevamo
raffigurare nemmeno col pensiero, e la cui astratta idea bastava a provocare un brivido
di disgusto, no: d’angoscia, o meglio, uno stordimento, una – appunto – vertigine (ecco,
le nostre reazioni erano più complicate di quello che si può credere, specialmente quelle
di Euridice), e vi s’insinuava una parte di fascinazione, come un’attrazione del vuoto,
del bifronte, dell’ultimo.
Seguendo Euridice in questi suoi estri vaganti, infilammo la gola di un vulcano spento.
Sopra di noi, attraversando come una strozzatura di clessidra, s’aperse la cavità del
cratere, grumosa e grigia, un paesaggio non molto diverso, per forma e sostanza, dai
soliti delle nostre profondità; ma ciò che ci fece restare attoniti era il fatto che la Terra
lì si fermava, non ricominciava a gravare su se stessa sotto altro aspetto, e di lì in poi
cominciava il vuoto, o comunque una sostanza incomparabilmente più tenue di quelle
che avevamo fino allora attraversato, una sostanza trasparente e vibrante, l’aria azzurra.
Furono queste vibrazioni a perdere Euridicie, così diverse da quelle che si propagano
lente attraverso il granito e il basalto, diverse da tutti gli schiocchi, i clangori, i cupi
rimbombi che percorrono torpidamente le masse dei metalli fusi o le muraglie
cristalline. Qui le venivano incontro come uno scoccare di scintille sonore minute e
puntiformi che si succedevano a una velocità per noi insostenibile da ogni punto dello
spazio: era una specie di solletico che metteva addosso una smania incomposta. Ci
prese – o, almeno, mi prese: da qui in poi sono costretto a distinguere gli stati d’animo
miei da quelli di Euridice – il desiderio di ritrarci nel nero fondo di silenzio su cui l’eco
dei terremoti passa soffice e si perde in lontananza. Ma per Euridice, attratta come
sempre dal raro e dall’inconsulto, c’era l’impazienza d’appropriarsi di qualcosa
d’unico, buono o cattivo che fosse.
Fu in quel momento che scattò l’insidia: oltre l’orlo del cratere l’aria vibrò in modo
continuo, anzi in un modo continuo che conteneva più modi discontinui di vibrare. Era
un suono che si alzava pieno, si smorzava, riprendeva volume, e in questo modularsi
seguiva un disegno invisibile disteso nel tempo come una successione di pieni e di
vuoti. Altre vibrazioni vi si sovrapponevano, ed erano acute e ben distaccate l’una
dall’altra, ma stringevano in un alone ora dolce ora amaro, e contrapponendosi o
accompagnando il corso del suono più profondo, imponevano come un cerchio o
campo o dominio sonoro.
Subito il mio impulso fu di sottrarmi a quel cerchio, di ritornare nella densità ovattata: e
scivolai dentro il cratere. Ma Euridice, nello stesso istante, aveva preso la corsa su per i
dirupi nella direzione da cui proveniva il suono, e prima che io potessi trattenerla aveva
superato l’orlo del cratere. O fu un braccio, che la ghermì, serpentino, e la trascinò
fuori; riuscii a udire un grido, il grido di lei, che si univa al suono di prima, in armonia
con esso, in un unico canto che lei e lo sconosciuto cantore intonavano, scandito sulle
corde di uno strumento, scendendo le pendici esterne del vulcano.
Non so se quest’immagine corrisponde a ciò che vidi o a ciò che immaginai: stavo già
sprofondando nel mio buio, i cieli interni si chiudevano a uno a uno sopra di me: volte
silicee, tetti di alluminio, atmosfere di zolfo vischioso; e il variegato silenzio
sotterraneo mi echeggiava intorno coi suoi boati trattenuti, coi suoi tuoni sottovoce. Il
sollievo a ritrovarmi lontano dal nauseante margine dell’aria e dal supplizio delle onde
sonore mi prese insieme alla disperazione d’aver persa Euridice. Ecco, ero solo: non
avevo saputo salvarla dallo strazio di esser strappata alla Terra, esposta alla continua
percussione di corde tese nell’aria con cui il mondo del vuoto si difende dal vuoto. Il
mio sogni di rendere vivente la Terra raggiungendone con Euridice l’ultimo centro era
fallito. Euridice era prigioniera, esiliata nelle lande scoperchiate del fuori.
Seguì un tempo d’attesa. I miei occhi contemplavano i paesaggi fittamente premuti uno
sull’altro che riempiono il volume del globo: caverne filiformi, catene montuose
addossate in scaglie e lamine, oceani strizzati come spugne: più riconoscevo con
commozione il nostro mondo stipato, concentrato, compatto, più soffrivo che non ci
fosse Euridice ad abitarlo.
Liberarla diventò il mio solo pensiero: forzare le porte del fuori, invadere coll’interno
l’esterno, riannettere Euridice alla materia terrestre, costruire sopra di lei una nuova
volta, un nuovo cielo minerale, salvarla dall’inferno di quell’aria vibrante, di quel
suono, di quel canto. Spiavo il raccogliersi della lava nelle caverne vulcaniche, il
premere su per i condotti verticali della crosta terrestre: questa era la via.
Venne il giorno dell’eruzione, una torre di lapilli s’innalzò nera nell’aria sopra il
Vesuvio decapitato, la lava galoppava sulle vigne del golfo, forzava le porte
d’Ercolano, schiacciava il mulattiere e la bestia contro la muraglia, strappava l’avaro
alle monete, lo schiavo ai ceppi, il cane stretto dal collare sradicava la catena e cercava
scampo nel granaio. Io ero là in mezzo: avanzavo con la lava, la valanga infuocata si
frastagliava in lingue, in rivoli, in serpenti, e nella punta che si infiltrava più avanti ero
io che correvo alla ricerca di Euridice. Sapevo – qualcosa m’avvertiva – che era ancora
prigioniera dello sconosciuto cantore: dove avrei riudito la musica di quello strumento e
il timbro di quella voce, là sarebbe stata lei.
Correvo trasportato dalla colata di lava tra orti appartati e templi di marmo. Udii il
canto e un arpeggio; due voci s’alternavano; riconobbi quella d’Euridice – ma quanto
cambiata! – che teneva dietro la voce ignota. Una scritta sull’archivolto in caratteri
greci: Orpheos. Sfondai l’uscio, dilagai oltre la soglia. La vidi solo un istante, accanto
all’arpa. Il luogo era chiuso e cavo, fatto apposta – si sarebbe detto – perché la musica
vi si raccogliesse, come in una conchiglia. Una tenda pesante – di cuoio mi sembrò,
anzi imbottita come una trapunta -, chiudeva una finestra, in modo da isolare la loro
musica dal mondo circostante. Appena entrai, Euridice tirò la tenda di strappo,
spalancando la finestra; fuori s’apriva il golfo abbagliante di riflessi e la città e le vie.
La luce del mezzogiorno invase la stanza, la luce e i suoni: uno strimpellio di chitarre si
levava da ogni parte e l’ondeggiante mugghio di cento altoparlanti, e si mischiavano a
un frastagliato scoppiettio di motori e strombettio. La corazza del rumore s’estendeva
di là in poi sulla crosta del globo: la fascia che delimita la vostra vita di superficie, con
le antenne inalberate sui tetti a trasformare in suono le onde che percorrono invisibili e
inudibili lo spazio, coi transistor appiccicati agli orecchi per riempirli in ogni istante
della colla acustica senza la quale non sapete se siete vivi o morti, coi jukebox che
immagazzinano e rovesciano suoni, e l’ininterrotta sirena dell’ambulanza che raccoglie
ora per ora i feriti della vostra carneficina ininterrotta.
Contro questo muro sonoro la lava si fermò. Trafitto dalle spine del reticolato di
vibrazioni strepitanti, io feci ancora un movimento avanti verso il punto dove per un
istante avevo visto Euridice, ma lei era sparita, sparito il suo rapitore: il canto da cui e
di cui vivevano era sommerso dall’irruzione della valanga del rumore, non riuscivo più
a distinguere lei né il suo canto.
Mi ritirai, muovendomi a ritroso nella colata di lava, risalii le pendici del vulcano,
tornai ad abitare il silenzio, a seppellirmi.
Ora, voi che vivete fuori, ditemi, se per caso vi accade di cogliere nella fitta pasta di
suoni che vi circonda il canto di Euridice, il canto che la tiene prigioniera ed è a sua
volta prigioniero del non-canto che massacra tutti i canti, se riuscite a riconoscere la
voce di Euridice in cui risuona ancora l’eco lontana della musica silenziosa degli
elementi, ditemelo, datemi notizie di lei, voi extraterrestri, voi provvisoriamente
vincitori, perché io possa riprendere i miei piani per riportare Euridice al centro della
vita terrestre, per ristabilire il regno degli dei del dentro, degli dei che abitano lo
spessore denso delle cose, ora che gli dei del fuori, gli dei degli alti Olimpi e dell’aria
rarefatta vi hanno dato tutto quello che potevano dare, ed è chiaro che non basta.
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