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13 dicembre 2015

Metamorfosi X 1-85 - Ovidio



Metamorfosi X 1- 85 - Ovidio



Di là, avvolto nel manto di croco, Imeneo

andò per il cielo immenso e si diresse alla terra dei Ciconi,

mentre invano lo chiama la voce di Orfeo.

Ci fu infatti, ma non portò le parole solenni,

né un volto lieto, né i presagi propizi;

e la fiaccola in mano sua stridette, mandando fumo

che faceva piangere e, anche agitata, non prese fuoco.

L’esito fu peggiore dell’auspicio: la sposa novella,

mentre passeggia sui prati accompagnata da una schiera di Naiadi,

morì morsa da un serpente al tallone.

Dopo averla pianta abbastanza alla luce del sole,

il poeta tracio, per tentare anche le ombre,

osò discendere per la porta tenaria allo Stige,

e procedendo tra le folle lievi e i simulacri

dei defunti sepolti, andò da Persefone e dal signore

dello squallido regno delle ombre. Facendo vibrare la lira,

disse: «Dèi del mondo sotterraneo, nel quale

cadiamo noi tutti che siamo nati mortali,

se mi è lecito, se permettete che io, lasciando

i meandri del falso, dica la verità, non sono venuto

qui per vedere il Tartaro buio, o incatenare il triplo collo

del mostro meduseo che ha per vello i serpenti;

causa del mio viaggio è la mia sposa, su cui una vipera

calpestata ha diffuso il suo veleno e ne ha troncato la

vita ancora crescente.

Avrei voluto essere in grado di sopportare e, non

negherò, l’ho tentato,

ma Amore ha vinto! È un dio ben noto alla luce del sole;

che lo sia anche qui, ne dubito, ma lo credo;

se non è falsa la fama dell’antico ratto,

anche voi Amore ha unito: per questi luoghi orribili,

per questo enorme Caos e i silenzi del vasto regno, vi prego,

ritessete il destino precipitoso della mia Euridice!

Tutti vi siamo dovuti e, dopo un breve indugio,

presto o tardi tutti ci affrettiamo alla stessa sede.

Qui tutti siamo diretti, questa è la casa ultima:

voi tenete il più lungo dominio sul genere umano.

Anche lei, quando avrà compiuto un giusto numero d’anni,

vi sarà sottoposta: vi chiedo di darmela in prestito e non in dono.

Se i fati mi negano la grazia per la mia sposa,

ho deciso di non tornare: godete la morte di entrambi!»

Mentre così diceva e accompagnava con lo strumento le sue

parole, le anime esangui piangevano: Tantalo

non cerca più l’acqua fuggente, rimane attonita

la ruota di Issione, gli uccelli non mordono il fegato,

le nipoti di Belo lasciano l’urne, e tu sedesti sul sasso, Sisifo.

Allora per la prima volta dicono, s’inumidirono

di lacrime le gote delle Eumenidi, vinte: né la sposa del re

del profondo né il re stesso hanno il coraggio di opporre

un rifiuto e chiamano Euridice. Era fra le ombre recenti,

e camminava, per via della ferita, con passo tardo.

La ricevette Orfeo assieme a una condizione,

di non volgere indietro gli occhi finché non fosse

uscito dalle valli d’Averno, o il dono sarebbe stato vano.

Prendono attraverso il silenzio il sentiero arduo

oscuro, denso, coperto di caligine. Non erano lontani dalla

superficie terrestre, e qui Orfeo, per amore,

temendo che non gli venisse a mancare ed avido

di vederla, volse indietro gli occhi, ed ella subito

scivolò indietro e, tendendo le braccia e cercando

di afferrarla ed esserne afferrato, non prese altro che aria cedevole.

Morendo ormai per la seconda volta, non si lagnò del suo sposo

(di cosa avrebbe potuto lagnarsi altro che d’essere amata?)

e disse l’ultimo addio, che appena giunse alle orecchie di lui,

e di nuovo precipitò indietro. Dalla doppia morte

della sposa Orfeo rimase attonito, come quello

che vide con terrore i tre colli di Cerbero, con le catene a quello di mezzo,

e la paura abbandonò solo insieme

alla natura di prima, quando la pietra invase il suo corpo.

O come Oleno, che si addossò la colpa e volle sembrare

colpevole, e te, infelice Letea, che fidasti troppo

nella tua bellezza, cuori un tempo uniti,

ora pietre che sorgono sopra l’umida Ide.

Pregava e voleva di nuovo passare, ma il traghettatore

lo allontanò: eppure per sette giorni rimase

seduto tristemente sulla riva senza mangiare:

suo cibo era l’angoscia, il dolore, il pianto.

Lagnandosi che gli dèi dell’Erebo erano senza pietà,

andò nell’alta Rodope e sull’Emo battuto dall’Aquilone.

Per la terza volta il Sole aveva concluso l’anno

nella costellazione dei Pesci marini, ed Orfeo da allora evitava

ogni amore di donna, perché era finito male,

o perché aveva promesso: eppure tante donne bruciavano

per unirsi al poeta, e molte soffrirono per la repulsa.

Fu lui che insegnò ai Traci a indirizzare

l’amore sui teneri maschi, e a cogliere i primi fiori

della breve primavera di vita prima della giovinezza.



(Trad. G. Paduano)

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