foto da collinematerane.it
da "Le città invisibili - Italo Calvino
Gli altri ambasciatori mi avvertono
di carestie, di concussioni, di congiure, oppure mi segnalano miniere di
turchesi nuovamente scoperte, prezzi vantaggiosi nelle pelli di martora,
proposte di forniture di lame damascate.
E tu? – chiese a Polo il Gran Kan. –
Torni da paesi altrettanto lontani e tutto quello che sai dirmi sono i pensieri
che vengono a chi prende il fresco la sera seduto sulla soglia di casa. A che
ti serve, allora, tanto viaggiare?
– È sera, siamo seduti sulla
scalinata del tuo palazzo, spira un po’ di vento, – rispose Marco Polo. –
Qualsiasi paese le mie parole evochino intorno a te, lo vedrai da un osservatorio
situato come il tuo, anche se al posto della reggia c’è un villaggio di
palafitte e se la brezza porta l’odore d’un estuario fangoso.
– Il mio sguardo è quello di chi sta
assorto e medita, lo ammetto. Ma il tuo? Tu attraversi arcipelaghi, tundre,
catene di montagne. Tanto varrebbe che non ti muovessi di qui.
Il veneziano sapeva che quando
Kublai se la prendeva con lui era per seguire meglio il filo d’un suo
ragionamento; e che le sue risposte e obiezioni trovavano il loro posto in un
discorso che già si svolgeva per conto suo, nella testa del Gran Kan. Ossia,
tra loro era indifferente che quesiti e soluzioni fossero enunciati ad alta
voce o che ognuno dei due continuasse a rimuginarli in silenzio. Difatti
stavano muti, a occhi socchiusi, adagiati su cuscini, dondolando su amache,
fumando lunghe pipe d’ambra.
Marco Polo immaginava di rispondere
(o Kublai immaginava la sua risposta) che più si perdeva in quartieri sconosciuti
di città lontane, più capiva le altre città che aveva attraversato per giungere
fin là, e ripercorreva le tappe dei suoi viaggi, e imparava a conoscere il
porto da cui era salpato, e i luoghi familiari della sua giovinezza, e i
dintorni di casa, e un campiello di Venezia dove correva da bambino.
A questo punto Kublai Kan
l’interrompeva o immaginava d’interromperlo, o Marco Polo immaginava d’essere
interrotto, con una domanda come: – Avanzi col capo voltato sempre
all’indietro? – oppure: – Ciò che vedi è sempre alle tue spalle? – o meglio: –
Il tuo viaggio si svolge solo nel passato? Tutto perché Marco Polo potesse
spiegare o immaginare di spiegare o essere immaginato spiegare o riuscire finalmente
a spiegare a se stesso che quello che lui cercava era sempre qualcosa davanti a
sé, e anche se si trattava del passato era un passato che cambiava man mano egli
avanzava nel suo viaggio, perché il passato del viaggiatore cambia a seconda
dell’itinerario compiuto, non diciamo il passato prossimo cui ogni giorno che
passa aggiunge un giorno, ma il passato più remoto. Arrivando a ogni nuova
città il viaggiatore ritrova un suo passato che non sapeva più d’avere:
l’estraneità di ciò che non sei più o non possiedi più t’aspetta al varco nei
luoghi estranei e non posseduti.
Marco entra in una città; vede
qualcuno in una piazza vivere una vita o un istante che potevano essere suoi;
al posto di quell’uomo ora avrebbe potuto esserci lui se si fosse fermato nel
tempo tanto tempo prima, oppure se tanto tempo prima a un crocevia invece di
prendere una strada avesse preso quella opposta e dopo un lungo giro fosse venuto
a trovarsi al posto di quell’uomo in quella piazza. Ormai, da quel suo passato
vero o ipotetico, lui è escluso; non può fermarsi; deve proseguire fino a
un’altra città dove lo aspetta un altro suo passato, o qualcosa che forse era
stato un suo possibile futuro e ora è il presente di qualcun altro. I futuri non
realizzati sono solo rami del passato: rami secchi.
– Viaggi per rivivere il tuo
passato? – era a questo punto la domanda del Kan, che poteva anche essere
formulata così: – Viaggi per ritrovare il tuo futuro? E la risposta di Marco: –
L’altrove è uno specchio in negativo. Il viaggiatore riconosce il poco che è
suo, scoprendo il molto che non ha avuto e non avrà.
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