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26 aprile 2017

Rime XIII - Isabella Morra


Rime XIII - Isabella Morra

Quel che gli giorni a dietro
noiava questa mia gravosa salma,
di star tra queste selve erme ed oscure
or sol diletta l’alma;
chè da Dio, sua mercé, tal grazia impetro,
che scorger ben mi fa le vie secure
di gire a lui fuor de le inique cure.
Or, rivolta la mente a la Reina
del Ciel, con vera altissima umiltade,
per le solinghe strade
senza intrico mortal l’alma camina
già verso il suo riposo,
che ad altra parte il pensier non inchina
fuggendo il tristo secol sì noioso,
lieta e contenta in questo bosco ombroso.
Quando da l’oriente
spunta l’aurora col vermiglio raggio
e ne s’annuncia da le squille il giorno,
allora al gran messaggio
de la nostra salute alzo la mente
e lo contemplo d’alte glorie adorno
nel basso tetto, dove fea soggiorno
la gran Madre di Dio ch’or regna in Cielo.
Così, godendo nel mio petto umile,
a lei drizzo il mio stile,
e ‘l fral mio vel di roze veste velo,
e sol di servir lei,
non d’altra cura, al cor mi giunge zelo,
seguendo le vestigia di colei
che dal deserto accolta fu tra i Dei.
Quando da poi fuor sorge
Febo, che fa nel mar la strada d’oro,
tutta m’interna e l’allegrezza immensa
c'ebbe del suo tesoro
quella che con tanta grazia or a me porge;
ch’io la riveggio con la mente intensa
mirare il figlio in caritate accensa,
nato fra gli animai, con pio sembiante;
e dal sangue che manda al petto il core
nodrire il suo Signore;
e scemo il duce de l’eterno amante
sotto povere veste
spregiar le pompe del vulgo arrogante,
colui che sol pregiò l’aspre foreste
e fu fatto da Dio tromba celeste.
Poi che ‘l suo chiaro volto
alzando, da le valli scaccia l’ombra
il biondo Apollo col suo altero sguardo,
un bel pensier m’ingombra;
parmi veder Giesù nel tempio, involto
fra Saggi, disputar con parlar tardo,
e lei, per ch’io d’amor m’infiammo ed ardo,
versar dagli occhi, per letizia, pianto.
Questi conforti in contra i duri oltraggi
m’apportan questi faggi,
lungi schivando di sirene il canto;
ché per solinghe vie
il bel gioven, a Dio diletto tanto,
con le sue caste voglie e sante e pie
vide il sentier de l’alte ierarchie.
Alzato a mezzo il polo
il gran pianeta cò bollenti rai,
ch’uccide i fiori in grembo a primavera,
s’alcuno vide mai
crucciato il padre contra il rio figliuolo,
così contemplo Cristo, in voce altera
predicando, ammonir la plebe fera
e col cenno, del qual l’Inferno pave,
romper le porte d’ogni duro core,
cacciando il vizio fore.
Quanto ti fu a vedere, o Dea, soave
gli error conversi in cenere
dal caro figlio in abito sì grave?
Quanto beata fu chi le sue tenere
membra a Dio consacrò, sacrate a Venere?
E se l’eterno Foco
giunge tant’alto ch’al calar rimira,
ti scorgo, o Signor mio, fra i tuoi fratelli
senza minacce od ira
del tuo amore infiammargli a poco a poco,
e cò leggiadri detti e gravi e belli
render beati e pien di grazia quelli,
lor rammentando pur la santa pace.
La gioia del mio cor, ch’amo ed adoro,
contemplo fra coloro
che i santi esempi tuoi raccoglie e tace.
O via dolce e spedita,
trovata già nel vil secol fallace;
e chi ‘l primiero fu, dal Ciel m’addita
sol de l’erèmo la tranquilla vita!
Per voi, grotta felice,
boschi intricati e ruinati sassi,
Sinno veloce, chiare fonti e rivi,
erbe che d’altrui passi
segnate a me vedere unqua non lice,
compagna son di quelli spirti divi,
c’or là su stanno in sempiterno vivi,
e nel solare e glorioso lembo
de la madre, del padre e del suo Dio
spero vedermi anch’io
sgombrata tutta dal terrestre nembo
e fra l’alme beate
ogni mio bel pensier riporle in grembo.
O mie rimote e fortunate strate,
donde adopra il Signor la sua pietade!
Quando discovre e scalda il chiaro sole,
canzon, è nulla ad un guardo di lei,
ch'è Reina del Ciel, Dea degli dei.

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