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19 dicembre 2014

Amori: Terusa (I) – Pablo Neruda

Jan Brueghel il giovane - Allegoria dell'olfatto

Amori: Terusa (I) – Pablo Neruda

E come, dove giace
quell’antico amore?
Ora
è una tomba d’uccello, una goccia
di quarzo nero,
un pezzo
di legno roso dalla pioggia?

E di quel corpo che come la luna
splendeva nell’oscura primavera
del Sud,
che rimarrà?
La mano
Che sostenne
Tutta la trasparenza e il rumore
Del fiume calmo,
gli occhi del bosco,
ampi, pietrificati
come i minerali della notte,
i piedi
della ragazza dei miei sogni,
piedi di spiga, di frumento, di ciliegia,
frapposti, agili, volanti,
tra la mia pallida infanzia e il mondo?
Dov’è l’amore morto?
L’amore, l’amore,
dove va a morire?
Nei granai remoti,
al piede dei rosai che sono morti
sotto i sette piedi della cenere
di quelle case povere
che si portò via un incendio del villaggio?

Oh amore
della prima luce dell’alba,
del mezzogiorno acerrimo
e delle sue lance,
amore con tutto il cielo
goccia a goccia
quando la notte attraversa
il mondo
nel suo totale naviglio,
oh amore
di solitudine
adolescente,
o grande viola
sparsa
con aroma e rugiada
e infranta freschezza
sopra il volto:

quei baci
che
salivano
su per la pelle, ramificandosi e mordendo,
dai puri corpi distesi
fino alla pietra azzurra della volta notturna.

Terusa d’occhi ampi,
alla luna
o al sole d’inverno, quando
le province
ricevono il dolore, la slealtà
dell’oblio immenso
e tu brilli, Terusa,
come il cristallo bruciato
del topazio,
come la scottatura
del garofano,
come il metallo che scoppia nel lampo
ed emigra alle labbra della notte.

Terusa
aperta tra i papaveri, scintilla
nera
del primo dolore
stella tra i pesci,
alla luce
della pura corrente genitale,
uccello violetto del primo abisso,
senza alcova, nel regno
del cuore visibile
il cui miele inaugurano i mandorli,
il polline incendiario
della ginestra agreste,
la cedronella dai tentativi verdi,
la patria dei misteriosi muschi.

Suonavano le campane di Cautìn,
tutti i petali chiedevano qualcosa,
non rinunciava a nulla la terra,
l’acqua ammiccava
senza sosta:
voleva aprire l’estate,
darle alfine una ferita,
precipitava in furia
il fiume che veniva dalle Ande,
si trasformava in una stella dura
che inchiodava la selva,
la riva,
le rocce:
lì non abita alcuno:
solo l’acqua e la terra
e i treni che ululavano,
i treni dell’inverno
alle loro occupazioni
attraversando la geografia
solitaria:
regno mio,
regno delle radici
con fulgore di menta,
chioma di felci,
pube bagnato,
regno della mia perduta piccolezza
quando vidi nascere la terra
e io facevo parte
della bagnata
integrità
terrestre:
lampada tra i germi e l’acqua,
nella nascita del grano,
patria dei legni
che morivano
ululando nell’ululato
delle segherie:
il fumo, anima balsamica
del selvaggio
crepuscolo,
legato
come un pericoloso prigioniero
alle regioni della selva,
a Lonocoche,
a Quintratùe,
agli imbarcaderi di Maullìn,
e io nascevo
col tuo amore
Terusa,
col tuo amore sfogliato
sulla mia pelle assetata
come
se le cascate
della zagara, dell’ombra, della farina,
avessero trasgredito la mia sostanza
e io da quell’ora ti recassi in me,
Terusa,
inestinguibile
anche nell’oblio,
attraverso
le età ossidate,
aroma
eletto,
profonda madreselva o canto
o sogno
o luna che impastarono i gelsomini
o albeggiare del trifoglio verso l’acqua
o ampiezza della terra coi suoi fiumi
o demenza dei fiori o tristezza
o segno della calamita o volontà
del mare raggiante e della sua danza infinita.

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