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13 luglio 2017

da “La nausea” – Jean Paul Sartre

Maurits Cornelis Escher - Stelle
da “La nausea” – Jean Paul Sartre
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Non posso dire di sentirmi sollevato né contento: al contrario, è una cosa che m’accascia. Soltanto, il mio scopo è raggiunto: so quello che volevo sapere; tutto quello che m’è accaduto dal mese di gennaio l’ho capito ora. La Nausea non m’ha lasciato e non credo che mi lascerà tanto presto; ma non la subisco più, non è più una malattia né un accesso passeggero: sono io stesso.
Dunque, poco fa ero al giardino pubblico. La radice del castagno s’affondava nella terra, proprio sotto la mia panchina. Non mi ricordavo più che era una radice. Le parole erano scomparse, e con esse, il significato delle cose,modi del loro uso, i tenui segni di riconoscimento che gli uomini han tracciato sulla loro superficie. Ero seduto, un po’chino, a testa bassa, solo, di fronte a quella massa nera e nodosa, del tutto bruta, che mi faceva paura. E poi ho avuto questo lampo d’illuminazione.
Ne ho avuto il fiato mozzo. Mai, prima di questi ultimi giorni, avevo presentito ciò che vuol dire «esistere». Ero come gli altri, come quelli che passeggiano in riva al mare nei loro abiti primaverili. Dicevo come loro «il mare è verde; quel punto bianco, lassù, è un gabbiano» ma non sentivo che ciò esisteva, che il gabbiano era un «gabbiano esistente»; di solito l’esistenza si nasconde. È lì, attorno a noi, è noi, non si può dire due parole senza parlare di essa e, infine, non la si tocca. Quando credevo di pensare ad essa, evidentemente non pensavo nulla, avevo la testa vuota, o soltanto una parola, in testa, la parola «essere». Oppure pensavo… come dire? Pensavo all’appartenenza, mi dicevo che il mare apparteneva alla classe degli oggetti verdi o che il verde faceva parte delle qualità del mare. Anche quando guardavo le cose, ero a cento miglia dal pensare che esistevano: m’apparivano come un ornamento. Le prendevo in mano, mi servivano come utensili, prevedevo la loro resistenza ma tutto ciò accadeva alla superficie. Se
mi avessero domandato che cosa era l’esistenza, avrei risposto in buona fede che non era niente, semplicemente una forma vuota che veniva ad aggiungersi alle cose dal di fuori, senza nulla cambiare alla loro natura. E poi, ecco: d’un tratto, era lì, chiaro come il giorno: l’esistenza s’era improvvisamente svelata. Aveva perduto il suo aspetto inoffensivo di categoria astratta, era la materia stessa delle cose, quella radice era impastata nell’esistenza. O piuttosto, la radice, le cancellate del giardino, la  panchina, la
rada erbetta del prato, tutto era scomparso; la diversità delle cose e  la loro individualità non erano che apparenza, una vernice. Questa vernice s’era dissolta, restavano delle masse mostruose e molli in disordine - nude, d’una spaventosa e oscena nudità.
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