opera di Maurits Cornelis Escher
da “La nausea” – Jean Paul Sartre(...)
Nera? Ho sentito la parola sgonfiarsi,
svuotarsi del suo senso con una rapidità
straordinaria. Nera? La radice non era nera. Non c’era del nero su quel
pezzo di legno c’era... un’altra cosa: il nero, come il cerchio, non esisteva.
Guardavo la radice: era più che nera o quasi nera? Ma ben presto ho smesso
d’interrogarmi poiché ho avuto l’impressione di trovarmi in una zona che
conoscevo. Sì, avevo già scrutato, con quella stessa inquietudine, innumerevoli
oggetti, avevo già cercato - vanamente - di pensare qualcosa su di essi: ed
avevo già sentito le loro qualità, fredde e inerti, sottrarsi e scivolarmi di
tra le dita. Le bretelle d’Adolfo, l’altra sera, al «Ritrovo dei ferrovieri»,
non erano viola. Ho riveduto le due macchie
indefinibili sulla camicia. E il ciottolo, quel famoso ciottolo, l’origine
di tutta questa storia: non era… non mi son ricordato bene, esattamente, ciò
che si era rifiutato di essere, ma non avevo dimenticato la sua resistenza
passiva. E la mano dell’Autodidatta; l’avevo presa e stretta, un giorno, in
biblioteca,e poi avevo
Avuto l’impressione che non fosse
proprio una mano. Avevo pensato ad un grosso verme bianco, ma non era neanche
questo. E poi quella losca trasparenza del bicchiere di birra al caffè Mably. Loschi, ecco che
cosa erano, i suoni, i profumi, i sapori. Quando vi passavano rapidamente sotto
il naso come lepri stanate, e non vi si
faceva troppa attenzione, si poteva crederli del tutto semplici e
rassicuranti, si poteva credere che al mondo ci fosse del vero azzurro, del vero
rosso, del vero odore di mandorla o di
violetta. Ma non appena uno li tratteneva un istante, questo senso di conforto,
di sicurezza, cedeva il posto ad un profondo disagio: i colori, i sapori, gli
odori, non erano mai veri, mai del tutto
schiettamente se stessi e null’altro che
se stessi. La qualità più semplice, la più indecomponibile aveva del di più, in
se stessa, in rapporto a se stessa, nel suo stesso seno. Quel nero, lì, contro
il mio piede, non aveva l’aria d’essere del nero, ma piuttosto lo sforzo
confuso per immaginare del nero di qualcuno che non ne aveva mai visto,
che non aveva saputo fermarsi, ed aveva
immaginato un essere ambiguo, al di là dei
colori. Rassomigliava a un colore, ma pure... ad una lividura, o,
ancora, ad una secrezione, ad una essudazione - e ad altro, a un odore, per
esempio, si fondeva in un odore di terra bagnata, di legno tiepido e bagnato,
in odore nero steso come una vernice su
quel legno nervato, in sapore dì fibra masticata, zuccherina. Non lo vedevo
semplicemente, questo nero: la vista è un’invenzione astratta, un’idea ripulita, semplificata, una idea d’uomo. Quel
nero lì, presenza amorfa e fiacca, oltrepassava di gran lunga la vista,
l’odorato e il gusto. Ma questa dovizia finiva per diventare confusione, e,
infine, non era più niente perché era troppo.
(...)
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