Paul Cezanne - Casa e alberi
da Feria d’agosto – Cesare Pavese
Insonnia
Quando rientravo
avanti l'alba sull'aia (rincasavo da feste, da discorsi, da avventure) sapevo
che mio padre era là, sotto la macchia nera del noce, e stava immobile, da chi
sa quanto tempo, guardando in mezzo agli alberi, dardeggiando gli occhi, sempre
sul punto di uscire sotto le stelle. Io sbucavo dal prato e attraversavo l'aia
(avrei potuto passare dal portico e non esser veduto), ma era meglio se capiva
subito che non volevo nascondermi e quando il buio sarebbe diradato sapesse già
ch'ero tornato da un pezzo. Il noce riempiva mezzo il cielo, ma un gran tratto
dell'aia restava scoperto e biancheggiava: io passavo su quel bianco, e la
notte era tanto serena che mi vedevo sotto i piedi la mia ombra.
Attraversavo quel
bianco senza guardare dalla parte del noce, perché se avessi guardato avrei
dovuto fermarmi e mio padre mi avrebbe chiamato dicendo qualcosa e uscendo
fuori. Mio padre non dormiva di notte perché era vecchio e gli pareva di
perdere il tempo. Diceva che il tempo non passato sui beni è tutto sprecato.
Nel cuore della notte scendeva dal letto (ci saliva che non era ancor buio), e
cominciava a girare, entrava nella stalla vuota, raddrizzava un tridente,
raccoglieva una paglia. Da quando le mie sorelle si erano sposate non ci restava
che una vigna: due giornate di costa che lui di giorno zappava e di notte
sorvegliava dall'aia. Un tempo (quand'eravamo bambini), già mezzo addormentati
nel letto lo sentivamo toccare la corda nella stalla e spalancare la porticina
che strideva raschiando. Allora quel rugghio ci pareva una minaccia, la voce
vera di nostro padre, che insonne vegliava e nella notte esponeva la casa ai
tremendi pericoli che un rumore improvviso può suscitare nel buio. Avremmo
voluto che la porticina gli si richiudesse alle spalle, per sentirci più sicuri
in fondo ai letti, dove il nostro cuore batteva. Eravamo sempre vissuti in
quella casa dove un rumore voleva dire un estraneo.
Adesso sbucavo
sull'aia ridendo, e sapevo che mio padre mi aspettava sotto il noce. A volte mi
accompagnava qualcuno fin sulla strada sotto la vigna: discorrevamo dell'ultima
bottiglia, di quel che s'era fatto e si doveva fare. – A domani, - dicevo. - A
domani, - e quell'altro si allontanava a passi lunghi, sotto le piante, anche
lui verso casa. In tre passi salivo il sentiero e vedevo il gran noce e mi
ritrovavo sull'aia di tutte le notti. Passavo senza fermarmi, davanti all'ombra
di mio padre. Sentivo che mi guardava e voleva parlarmi. Non mi voltavo,
arrivavo alla porta, e l'incontro era rimandato a un'altra volta.
Di giorno mio padre
aveva le sue idee e si sfogava con la mamma e gridava con me. C'erano sempre
dei lavori inutili e bisognava farli per amore della pace: si legavano fascine
e si vangava. Mio padre chiedeva non tanto che noi ci chinassimo a faticare,
quanto che gli fossimo intorno e girassimo sull'aia a fargli credere che c'era
lavoro per tutti. Da quando le mie sorelle si erano sposate e gli affittavano
la vigna, a casa nostra era una morte, non si vedeva più nessuno, anche la
stalla era vuota. Certi giorni mi annoiavo come quando ero ragazzo e nessuno
veniva a giocare. Pigliavo nei campi bruscamente e dicevo che andavo in paese;
andavo invece da mia sorella e le chiedevo di darmi un lavoro purchessia: non
mi dava lavoro, ma di là passava sempre qualcuno e si discorreva a sazietà.
- Cos'avete fatto? -
mi chiedeva a cena mio padre, e non bisognava rispondergli che avevamo
chiacchierato, perché cominciava a gridare e a prendersela con la mamma che ci
aveva messi al mondo così. Non con me.
Venendo notte, non se
la prendeva più con me, non osava affrontarmi. Era sempre sul punto di uscire
dall'ombra, ma ogni volta io passavo, con la giacchetta sotto braccio, divagato
e deciso, tendendo l'orecchio alle voci dei grilli, e nulla succedeva. Succedeva
soltanto che, una volta entrato in casa, la mamma mi chiamava, con la sua voce
soffocata, dal letto (neanche lei non dormiva più molto, alla sua età) e voleva
sapere se mio padre era sempre sull'aia, sapere che cosa faceva, se aveva detto
che rientrava. La tranquillavo borbottando, le dicevo che ero io e che faceva
sereno. Rispondevo così spazientito, che sembravo mio padre. Era il mese di
agosto e non c'era da pigliarsela se un vecchio non voleva dormire. La mamma a
poco a poco taceva, ma neanch'io riuscivo a prender sonno (mi agitavano il vino
e i discorsi della notte). Fuori c'era la campagna, c'eran le strade deserte,
l'indomani col sole sarebbe stata un'altra cosa; ma intanto la smania di
finirla, di prendere un treno, di andare in città e fare una vita più da uomo,
non mi lasciava dormire. Anche mio padre era scappato giovanotto, e lui se
n'era andato a piedi perché ai suoi tempi non c'era ancora la ferrovia. Ma dopo
un anno era tornato. Io non volevo tornare mai più.
La notte della
Madonna rincasai ch'era mattino, e una volta tanto il sentiero del prato mi
parve diverso dal solito. Mio padre usci dalla stalla mentre facevo colazione
sulla porta.
- Com'è andata la
festa?
- Ho trovato il
Nanni, - dissi masticando. - Abbiamo parlato.
- Che cosa può dire
quel vagabondo...
- Niente. Mi prende
insieme a lavorare quando voglio.
Mio padre si fermò
irresoluto; aveva in mano una cavezza e la posò sulla finestra. Ancora un anno
prima me l'avrebbe appioppata sulla schiena. Ma adesso era inutile, e si voltò
verso la stalla di dove usciva la mamma passandosi una mano sugli occhi. Io
lasciai che gridassero e intanto guardavo l'ombra lunga del noce.
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