(Apologo sull’onestà nel paese dei
corrotti)
C’era
un paese che si reggeva sull’illecito. Non che mancassero le leggi, né che il
sistema politico non fosse basato su principi che tutti più o meno dicevano di
condividere. Ma questo sistema, articolato su un gran numero di centri di
potere, aveva bisogno di mezzi finanziari smisurati (ne aveva bisogno perché
quando ci si abitua a disporre di molti soldi non si è più capaci di concepire
la vita in altro modo) e questi mezzi si potevano avere solo illecitamente,
cioè chiedendoli a chi li aveva in cambio di favori illeciti. Ossia, chi poteva
dar soldi in cambio di favori, in genere già aveva fatto questi soldi mediante
favori ottenuti in precedenza; per cui ne risultava un sistema economico in
qualche modo circolare e non privo di una sua autonomia.
Nel
finanziarsi per via illecita, ogni centro di potere non era sfiorato da alcun
senso di colpa, perché per la propria morale interna, ciò che era fatto
nell’interesse del gruppo era lecito, anzi benemerito, in quanto ogni gruppo
identificava il proprio potere col bene comune; l’illegalità formale, quindi,
non escludeva una superiore legalità sostanziale.
Vero
è che in ogni transazione illecita a favore di entità collettive è usanza che
una quota parte resti in mano di singoli individui, come equa ricompensa delle
indispensabili prestazioni di procacciamento e mediazione: quindi l’illecito
che, per la morale interna del gruppo era lecito, portava con sé una frangia di
illecito anche per quella morale.
Ma
a guardar bene, il privato che si trovava ad intascare la sua tangente
individuale sulla tangente collettiva, era sicuro di aver fatto agire il
proprio tornaconto individuale in favore del tornaconto collettivo, cioè
poteva, senza ipocrisia, convincersi che la sua condotta era non solo lecita ma
benemerita.
Il
paese aveva nello stesso tempo anche un dispendioso bilancio ufficiale,
alimentato dalle imposte su ogni attività lecita e finanziava lecitamente tutti
coloro che lecitamente o illecitamente riuscivano a farsi finanziare. Poiché in
quel paese nessuno era disposto non diciamo a fare bancarotta, ma neppure a
rimetterci di suo (e non si vede in nome di che cosa si sarebbe potuto pretendere
che qualcuno ci rimettesse), la finanza pubblica serviva ad integrare
lecitamente in nome del bene comune i disavanzi delle attività che sempre in
nome del bene comune si erano distinte per via illecita.
La
riscossione delle tasse, che in altre epoche e civiltà poteva ambire di far
leva sul dovere civico, qui ritornava alla sua schietta sostanza di atto di
forza (così come in certe località all’esazione da parte dello Stato si
aggiungeva quella di organizzazioni gangsteristiche o mafiose), atto di forza
cui il contribuente sottostava per evitare guai maggiori, pur provando anziché
il sollievo del dovere compiuto, la sensazione sgradevole di una complicità
passiva con la cattiva amministrazione della cosa pubblica e con il privilegio
delle attività illecite, normalmente esentate da ogni imposta.
Di
tanto in tanto, quando meno ce lo si aspettava, un tribunale decideva di
applicare le leggi, provocando piccoli terremoti in qualche centro di potere e
anche arresti di persone che avevano avuto fino ad allora le loro ragioni per
considerarsi impunibili.
In
quei casi il sentimento dominante, anziché di soddisfazione per la rivincita
della giustizia, era il sospetto che si trattasse di un regolamento di conti di
un centro di potere contro un altro centro di potere. Così che era difficile
stabilire se le leggi fossero usabili ormai soltanto come armi tattiche e
strategiche nelle guerre tra interessi illeciti oppure se i tribunali per
legittimare i loro compiti istituzionali dovessero accreditare l’idea che anche
loro erano dei centri di potere e di interessi illeciti come tutti gli altri.
Naturalmente,
una tale situazione era propizia anche per le associazioni a delinquere di tipo
tradizionale, che coi sequestri di persona e gli svaligiamenti di banche si
inserivano come un elemento di imprevedibilità nella giostra dei miliardi,
facendone deviare il flusso verso percorsi sotterranei, da cui prima o poi
certo riemergevano in mille forme inaspettate di finanza lecita o illecita.
In
opposizione al sistema guadagnavano terreno le organizzazioni del terrore che
usavano quegli stessi metodi di finanziamento della tradizione fuorilegge e con
un ben dosato stillicidio d’ammazzamenti distribuiti tra tutte le categorie di
cittadini illustri e oscuri si proponevano come l’unica alternativa globale del
sistema. Ma il loro effetto sul sistema era quello di rafforzarlo fino a
diventarne il puntello indispensabile e ne confermavano la convinzione di
essere il migliore sistema possibile e di non dover cambiare in nulla.
Cosi
tutte le forme di illecito, da quelle più sornione a quelle più feroci, si
saldavano in un sistema che aveva una sua stabilità e compattezza e coerenza e
nel quale moltissime persone potevano trovare il loro vantaggio pratico senza
perdere il vantaggio morale di sentirsi con la coscienza a posto. Avrebbero
potuto, dunque, dirsi unanimemente felici gli abitanti di quel paese se non
fosse stato per una pur sempre numerosa categoria di cittadini cui non si
sapeva quale ruolo attribuire: gli onesti.
Erano,
costoro, onesti, non per qualche speciale ragione (non potevano richiamarsi a
grandi principi, né patriottici, né sociali, né religiosi, che non avevano più
corso); erano onesti per abitudine mentale, condizionamento caratteriale, tic
nervoso, insomma non potevano farci niente se erano così, se le cose che
stavano loro a cuore non erano direttamente valutabili in denaro, se la loro
testa funzionava sempre in base a quei vieti meccanismi che collegano il
guadagno al lavoro, la stima al merito, la soddisfazione propria alla
soddisfazione di altra persone.
In
quel paese di gente che si sentiva sempre con la coscienza a posto, gli onesti
erano i soli a farsi sempre gli scrupoli, a chiedersi ogni momento che cosa
avrebbero dovuto fare. Sapevano che fare la morale agli altri, indignarsi,
predicare la virtù sono cose che riscuotono troppo facilmente l’approvazione di
tutti, in buona o in mala fede. Il potere non lo trovavano abbastanza
interessante per sognarlo per sé (o almeno quel potere che interessava agli
altri), non si facevano illusioni che in altri paesi non ci fossero le stesse
magagne, anche se tenute più nascoste; in una società migliore non speravano
perché sapevano che il peggio è sempre più probabile.
Dovevano
rassegnarsi all’estinzione? No, la loro consolazione era pensare che, così come
in margine a tutte le società durate millenni s’era perpetuata una
controsocietà di malandrini, tagliaborse, ladruncoli e gabbamondo, una
controsocietà che non aveva mai avuto nessuna pretesa di diventare “la”
società, ma solo di sopravvivere nelle pieghe della società dominante ed
affermare il proprio modo di esistere a dispetto dei principi consacrati, e per
questo aveva dato di sé (almeno se vista non troppo da vicino) un’immagine
libera, allegra e vitale, così la controsocietà degli onesti forse sarebbe
riuscita a persistere ancora per secoli, in margine al costume corrente, senza
altra pretesa che di vivere la propria diversità, di sentirsi dissimile da
tutto il resto, e a questo modo magari avrebbe finito per significare qualcosa
di essenziale per tutti, per essere immagine di qualcosa che le parole non
sanno più dire, di qualcosa che non è stato ancora detto e ancora non sappiamo
cos’è.
il testo è apparso per la prima volta su “la
Repubblica” il 15 marzo 1980.
da lavocedifiore.org
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