Il tailleur grigio - Andrea Camilleri
Nel corso della sua
lunga, irreprensibile carriera di alto funzionario di banca e di marito devoto,
il protagonista di questo romanzo ha ricevuto tre lettere anonime. Le prime due
sono vecchie di decenni, l’ultima è recente e insinua dubbi sulla fedeltà della
sua giovane e bellissima seconda moglie, Adele, una splendida e irresistibile
femme fatale, una donna dotata in pari misura di ferina sensualità e di un
gusto sobrio e deciso in tutto, anche nel vestire. Nessuno si stupisce, dunque,
che in alcune particolari circostanze ami indossare un castigato tailleur
grigio. Ma questo vestito assume un profondo significato simbolico. Un
significato che forse sarebbe molto meglio non conoscere mai…
Raprì
l’occhi come tutte le matine alle sei spaccate.
Susennosi
di un quarto e sporgendosi di lato a rischio di cadere dal letto, branculiò con
la mano mancina sopra al comodino, trovò il ralogio da polso, lo pigliò, si
stinnicchiò nuovamente, con l’altra mano addrumò la luce, taliò il ralogio ed
ebbe la conferma che erano le sei.
D’altra
parte, non avrebbe potuto essere diversamente: doppo quarant’anni e passa,
oramà tutto il suo corpo si era abituato e aveva puntato a quell’orario una sua
particolare sveglia interna che non fallava mai. Per cui, macari se la sera avanti
si era corcato col proposito d’arribbigliarsi un’ora doppo del solito, la
sveglia corporale sempre alle sei spaccate sonava, e non c’era verso di
cangiarle orario.
Tante
erano oramà le cose mattutine che il suo corpo faceva, come dire, in
automatico. Pirchì, tanto per fare un esempio, doviva mettersi a tastiare allo
scuro fino a quando le punte delle dita sentivano il vetro del ralogio,
pigliarlo in mano, addrumare la luce con l’altra mano e finalmente taliare che
ora era? non sarebbe stato più logico adoperare una mano sola per addrumare la
luce, pigliare il ralogio e taliare l’ora, senza il bisogno di fare tutto quel
mutuperio? oltretutto, sarebbe stato uno sparagno d’energia. E di ralogi, a
considerare bene. Perché nel corso di quarant’anni, a forza di tastare nello
scuro, di ralogi ne aveva scassati tre facendoli cadere a terra.
Ma
come si fa a puntare la sveglia interna a un’ora diversa? Capace che persino
una svrglia normale, di quelle che si mettono sul comodino, doppo quarant’anni
che aveva la lancetta fissa sulle sei, difficilmente si sarebbe potuta sbloccare
da quella posizione.
Pirchì
da quella mattina in poi, d’arribbisgliarsi a quell’ora, non aveva più bisogno.
Dal
jorno avanti era andato in pensione.
Ma
evidentemente al corpo non gli era pervenuta la comunicazione ufficiale
dell’avvenuto pensionamento, tant’è vero che cinque minuti doppo che si era
arribbisgliato, a malgrado un timido tentativo di restarsene ancora canticchia
corcato, si era trovato, come al solito, addritta. Dal bagno, e quella mattina
il dolore era stato particolarmente forte, tanto da farlo lacrimare, era
passato nello spogliatoio, un cammarino stritto e longo che aveva una parete
interamente pigliata da un armadio a muro bianco. Sopra ai due ometti, Giovanni
aveva già preparato biancheria e abito da indossare. La sera avanti non gli
aveva lasciato ordini precisi circa i vestiti che gli necessitavano per il
jorno appresso, per cui il cammerere si era mantenuto sulle generali, vale a
dire completo grigio scuro, cammisa bianca, cravatta severa.
Quando
finì di vestirsi e si taliò allo specchio, si sentì canticchia a disagio. se ne
spiò la ragione. E la risposta gli venne subito: era vestito come tutti i
giorni, esattamente come se dovesse andare in banca.
E
invece in banca non doveva più andarci.
Però
non aveva nessuna gana di raprire l’armadio e di scegliersi un altro vestito.
Comunque, sarebbe stata un’impresa difficile assà. Da anni non aveva avuto
occasione di raprirlo, precisamente da quando con Adele avevano deciso di
dividere in due l’appartamento, e non sapeva perciò il verso che il cammarere
aveva dato ai suoi vestiti dentro l’armadio. Si taliò nuovamente allo specchio
e stavolta s’attrovò decisamente riddicolo. era vestito come per un consiglio
d’amministrazione e invece l’unica cosa che d’ora in avanti avrebbe dovuto
amministrare era l’enorme quantità di tempo che aveva a disposizione per non
fare nenti.
No,
doveva assolutamente cambiarsi.
L’armadio
a muro era suddiviso in due filiere sovrapposte e ogni filiera era composta da
sei scomparti. Raprì il primo a mano dritta e lo richiuì subito, erano tutti
vestiti d’estate. Macari il secondo. Il terzo invece era stipato d’abiti di
mezza stagione. Nisciuno quasi li portava più, in quanto le mezze stagioni da
gran tempo erano scomparse, si passava dal cavudo al friddo e viceversa senza
soluzione di continuità.
L’indicazione
del verso ora gli era chiara, gli abiti invernali s’attrovavano nei restanti
tre armadietti a partire da mano manza. Ma a questo punto la gana di cercare
ancora gli passò definitivamente.
Riddicolo,
va bene. Ma a chi doveva dare conto? Tanto non aveva intenzione di niscire di
casa e non aviva da ricevere nisciuna persona. Però almeno una cosa la poteva
fare, un qualcosa di completamente diverso che spezzava la quarantennale
abitudine: togliesi la cravatta. Portò la mano all’altezza del collo, cominciò
ad armeggiare con le dita e il risultato fu di stringere chiossà il nodo, tanto
che a momenti si strozzava. Provò ad allentarlo, ma non ce la fece. Era come se
le dita fossero chiamate a compiere un gesto innaturale, si rifiutavano. Ma
com’era possibile. La sera, spogliandosi, non gli era mai capitato.
Già,
la sera. Ma non la mattina alle sette. Le sue dita, la matina, erano abituate a
fare il nodo, non a disfarlo. Poteva essere una spiegazione possibile. Ed era
anche il segno che sarebbe stato lungo e difficoltoso abituare il suo corpo a
ritmi diversi e insoliti. il nodo resistette a un ultimo tentativo. Gli venne
difficile tirare il respiro. Allora corse in bagno, prese la forbicina per le
unghie e lo tagliò, buttando i due pezzi della cravatta nel cestino.
Sentì
un tuppuliare alla porta accussì discreto che a momenti non gli parse.
“Sì”
“Va
tutto bene, signore?” spiò timoroso Giovanni.
“Sì.”
“Le
ho rifatto il caffè, signore.”
Rifatto.
Si era troppo attardato nello spogliatoio e aveva sgarrato i tempi rigorosi
delle consuetudini mattutine.
(…)
Quella
mattina, appena che Giovanni gli ebbe levato via il vassoio dalla scrivania,
raprì come al solito la borsa che s’era portata a casa dalla banca, ma che non
aveva toccato la sera avanti perché non c’erano documenti sui quali
travagliare, ma solo tre lettere il cui contenuto conosceva a memoria e che
aveva tenuto conservate nella piccola cassaforte del suo ufficio. Macari qui ne
aveva una quasi identica. Si susì, raprì la cassaforte, pigliò le tre lettere,
ce li mise dintra e subito, pentito, le ritirò fora, tornò ad assettarsi alla
scrivania, le dispose una appresso all’altra e restò a taliarle. Tre lettere
anonime. E tutte e tre gli erano state indirizzate in banca.
La
prima risaliva a quasi trent’anni avanti.
Fai
quello che devi farre e che tu lo sai.
Chi
te lo fa fari di moriri picciotto?
Appena
gli era arrivata, l’aveva fatta leggere a Germosino, il suo direttore di allora
“E
che significa?”
“E’
firmata Filippo Palmisano, dottore.”
“Ma
che dice! se è anonima!”
“E’
come se fosse firmata, mi creda.”
“Ma
che è questo Palmisano?”
Una
domanda che si poteva permettere soltanto uno come Febo Germosino, promosso da
solo due mesi direttore di filiale e spedito da Firenze a Montelusa.
(…)
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