8 aprile 2018

da Il tailleur grigio - Andrea Camilleri


Il tailleur grigio - Andrea Camilleri

Nel corso della sua lunga, irreprensibile carriera di alto funzionario di banca e di marito devoto, il protagonista di questo romanzo ha ricevuto tre lettere anonime. Le prime due sono vecchie di decenni, l’ultima è recente e insinua dubbi sulla fedeltà della sua giovane e bellissima seconda moglie, Adele, una splendida e irresistibile femme fatale, una donna dotata in pari misura di ferina sensualità e di un gusto sobrio e deciso in tutto, anche nel vestire. Nessuno si stupisce, dunque, che in alcune particolari circostanze ami indossare un castigato tailleur grigio. Ma questo vestito assume un profondo significato simbolico. Un significato che forse sarebbe molto meglio non conoscere mai…

Raprì l’occhi come tutte le matine alle sei spaccate.
Susennosi di un quarto e sporgendosi di lato a rischio di cadere dal letto, branculiò con la mano mancina sopra al comodino, trovò il ralogio da polso, lo pigliò, si stinnicchiò nuovamente, con l’altra mano addrumò la luce, taliò il ralogio ed ebbe la conferma che erano le sei.
D’altra parte, non avrebbe potuto essere diversamente: doppo quarant’anni e passa, oramà tutto il suo corpo si era abituato e aveva puntato a quell’orario una sua particolare sveglia interna che non fallava mai. Per cui, macari se la sera avanti si era corcato col proposito d’arribbigliarsi un’ora doppo del solito, la sveglia corporale sempre alle sei spaccate sonava, e non c’era verso di cangiarle orario.
Tante erano oramà le cose mattutine che il suo corpo faceva, come dire, in automatico. Pirchì, tanto per fare un esempio, doviva mettersi a tastiare allo scuro fino a quando le punte delle dita sentivano il vetro del ralogio, pigliarlo in mano, addrumare la luce con l’altra mano e finalmente taliare che ora era? non sarebbe stato più logico adoperare una mano sola per addrumare la luce, pigliare il ralogio e taliare l’ora, senza il bisogno di fare tutto quel mutuperio? oltretutto, sarebbe stato uno sparagno d’energia. E di ralogi, a considerare bene. Perché nel corso di quarant’anni, a forza di tastare nello scuro, di ralogi ne aveva scassati tre facendoli cadere a terra.
Ma come si fa a puntare la sveglia interna a un’ora diversa? Capace che persino una svrglia normale, di quelle che si mettono sul comodino, doppo quarant’anni che aveva la lancetta fissa sulle sei, difficilmente si sarebbe potuta sbloccare da quella posizione.
Pirchì da quella mattina in poi, d’arribbisgliarsi a quell’ora, non aveva più bisogno.
Dal jorno avanti era andato in pensione.
Ma evidentemente al corpo non gli era pervenuta la comunicazione ufficiale dell’avvenuto pensionamento, tant’è vero che cinque minuti doppo che si era arribbisgliato, a malgrado un timido tentativo di restarsene ancora canticchia corcato, si era trovato, come al solito, addritta. Dal bagno, e quella mattina il dolore era stato particolarmente forte, tanto da farlo lacrimare, era passato nello spogliatoio, un cammarino stritto e longo che aveva una parete interamente pigliata da un armadio a muro bianco. Sopra ai due ometti, Giovanni aveva già preparato biancheria e abito da indossare. La sera avanti non gli aveva lasciato ordini precisi circa i vestiti che gli necessitavano per il jorno appresso, per cui il cammerere si era mantenuto sulle generali, vale a dire completo grigio scuro, cammisa bianca, cravatta severa.
Quando finì di vestirsi e si taliò allo specchio, si sentì canticchia a disagio. se ne spiò la ragione. E la risposta gli venne subito: era vestito come tutti i giorni, esattamente come se dovesse andare in banca.
E invece in banca non doveva più andarci.
Però non aveva nessuna gana di raprire l’armadio e di scegliersi un altro vestito. Comunque, sarebbe stata un’impresa difficile assà. Da anni non aveva avuto occasione di raprirlo, precisamente da quando con Adele avevano deciso di dividere in due l’appartamento, e non sapeva perciò il verso che il cammarere aveva dato ai suoi vestiti dentro l’armadio. Si taliò nuovamente allo specchio e stavolta s’attrovò decisamente riddicolo. era vestito come per un consiglio d’amministrazione e invece l’unica cosa che d’ora in avanti avrebbe dovuto amministrare era l’enorme quantità di tempo che aveva a disposizione per non fare nenti.
No, doveva assolutamente cambiarsi.
L’armadio a muro era suddiviso in due filiere sovrapposte e ogni filiera era composta da sei scomparti. Raprì il primo a mano dritta e lo richiuì subito, erano tutti vestiti d’estate. Macari il secondo. Il terzo invece era stipato d’abiti di mezza stagione. Nisciuno quasi li portava più, in quanto le mezze stagioni da gran tempo erano scomparse, si passava dal cavudo al friddo e viceversa senza soluzione di continuità.
L’indicazione del verso ora gli era chiara, gli abiti invernali s’attrovavano nei restanti tre armadietti a partire da mano manza. Ma a questo punto la gana di cercare ancora gli passò definitivamente.
Riddicolo, va bene. Ma a chi doveva dare conto? Tanto non aveva intenzione di niscire di casa e non aviva da ricevere nisciuna persona. Però almeno una cosa la poteva fare, un qualcosa di completamente diverso che spezzava la quarantennale abitudine: togliesi la cravatta. Portò la mano all’altezza del collo, cominciò ad armeggiare con le dita e il risultato fu di stringere chiossà il nodo, tanto che a momenti si strozzava. Provò ad allentarlo, ma non ce la fece. Era come se le dita fossero chiamate a compiere un gesto innaturale, si rifiutavano. Ma com’era possibile. La sera, spogliandosi, non gli era mai capitato.
Già, la sera. Ma non la mattina alle sette. Le sue dita, la matina, erano abituate a fare il nodo, non a disfarlo. Poteva essere una spiegazione possibile. Ed era anche il segno che sarebbe stato lungo e difficoltoso abituare il suo corpo a ritmi diversi e insoliti. il nodo resistette a un ultimo tentativo. Gli venne difficile tirare il respiro. Allora corse in bagno, prese la forbicina per le unghie e lo tagliò, buttando i due pezzi della cravatta nel cestino.
Sentì un tuppuliare alla porta accussì discreto che a momenti non gli parse.
“Sì”
“Va tutto bene, signore?” spiò timoroso Giovanni.
“Sì.”
“Le ho rifatto il caffè, signore.”
Rifatto. Si era troppo attardato nello spogliatoio e aveva sgarrato i tempi rigorosi delle consuetudini mattutine.
(…)
Quella mattina, appena che Giovanni gli ebbe levato via il vassoio dalla scrivania, raprì come al solito la borsa che s’era portata a casa dalla banca, ma che non aveva toccato la sera avanti perché non c’erano documenti sui quali travagliare, ma solo tre lettere il cui contenuto conosceva a memoria e che aveva tenuto conservate nella piccola cassaforte del suo ufficio. Macari qui ne aveva una quasi identica. Si susì, raprì la cassaforte, pigliò le tre lettere, ce li mise dintra e subito, pentito, le ritirò fora, tornò ad assettarsi alla scrivania, le dispose una appresso all’altra e restò a taliarle. Tre lettere anonime. E tutte e tre gli erano state indirizzate in banca.
La prima risaliva a quasi trent’anni avanti.

Fai quello che devi farre e che tu lo sai.
Chi te lo fa fari di moriri picciotto?

Appena gli era arrivata, l’aveva fatta leggere a Germosino, il suo direttore di allora
“E che significa?”
“E’ firmata Filippo Palmisano, dottore.”
“Ma che dice! se è anonima!”
“E’ come se fosse firmata, mi creda.”
“Ma che è questo Palmisano?”
Una domanda che si poteva permettere soltanto uno come Febo Germosino, promosso da solo due mesi direttore di filiale e spedito da Firenze a Montelusa.
(…)

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