opera di Jack Vettriano
Da “Uomini nudi” –
Alicia Giménez-Bartlett
(…)
Questa
relazione con Javier è una specie di esperimento sociologico. In realtà non so
che cos’è, però mi piace, mi fa star bene. Quando mi alzo al mattino ho un
incentivo per affrontare la giornata, qualcosa a cui pensare che non i fa
venire l’angoscia e non mi deprime. Non avrei mai pensato che fosse così
eccitante impegnarsi a fondo nei rapporti umani. Immagino che ci riesci
soltanto se sei convinta che nessuno può farti del male. E io ne sono convinta.
Sono immune al dolore che gli altri possono arrecarmi. Ci sono arrivata molto
in fretta, quasi senza accorgermene. Ho attraversato tutte le fasi che seguono
una separazione: incredulità, dolore, angoscia, vergogna, rabbia, ansia per il
futuro. Le ho vissute disordinatamente, a volte tutte insieme. Adesso mi trovo
nella fase dell’eccesso, dell’anarchia. Ed è perfetto così. Non voglio
costruire nulla e non ho più nulla da difendere perché la fabbrica è scomparsa.
È scomparso tutto quello che mi legava e mi opprimeva. Sono libera.
Conoscere
Javier è stato provvidenziale. Godendo del sesso con lui ho capito molte cose.
Per esempio, che l’amore non esiste. Se qualche volta nella vita ho rimpianto
di non averlo saputo provare o suscitare, adesso posso sentirmi tranquilla. Le
coppie stanno insieme solo se c’è equilibrio tra la domanda e l’offerta. Il mio
caso conferma la regola. David cercava il successo professionale, e per un po’
lo ha avuto sposando me. Io, sposando David, guadagnavo uno status e un
sostegno per l’impresa. C’era equilibrio tra quello che ciascuno di noi voleva
e quello che poteva dare. Javier si accontenta di molto meno, poverino, mi fa
anche un po’ pena. Ma che cos’ha da offrirmi? Un sogno di felicità così banale,
così modesto. Vivere tranquilli in una casa tutta nostra, uscire a cena con gli
amici il sabato sera, andare a veder un film ogni tanto, fare la spesa al
supermercato. Carino, ma per me è un po’ tardi. Lui invece lascerebbe gli
spogliarelli e quegli incontri con le signore che lo umiliano tanto. Mi domando
perché. Se fosse una donna capirei. Ma un uomo? Basta guardare Ivàn. Lui sa
come gira il mondo e conosce il prezzo della libertà. Lui è libero come sarebbe
piaciuto esserlo a me.
Adesso
però non ho più niente che mi leghi. Nemmeno l’amicizia. I miei amici sono
stati i primi a lasciarmi sola quando mio marito mi ha mollata. Non ho figli,
non li ho mai voluti. Questo è l’unico punto su cui mi sono opposta ai progetti
di papà. Lui quello che voleva era un erede per la fabbrica. Non che avesse
insistito molto, a dire il vero, tra noi non si parlava mai di cose intime. Un
erede per la fabbrica! Povero papà! Poveri uomini, in fondo! Sempre così
impegnati a fare quello che ci si aspetta da loro. David così preso dalla
carriera, dal fascino di un certo mondo; papà così impegnato a far crescere la
sua fabbrica e tirare su me. Poveri uomini senza una volontà e un desiderio
propri! Perennemente alla rincorsa di scopi che il mondo ha creato per loro.
Ho
più di quarant’anni, e finora due cose hanno contato per la mia vita: l’azienda
e papà. L’azienda se l’è portata via il vento di questa benedetta crisi. Quanto
a papà, da quando quel cretino di uno psichiatra mi ha fatto venire il dubbio
che il suo affetto fosse una specie di aggressione, non oso nemmeno pensarci.
Malgrado tutto, sono felice. Se qualcosa mi tormenta mi faccio un tiro di coca.
Non dipendo da nessuno- è tutto in mio potere. Ho potere.
Chiamo
Genoveva per chiederle il numero di Ivàn e poi lo chiamo io direttamente. Lui
cui resta di sasso quando gli dico chi sono. È la prima volta che parliamo al
telefono. Ricordo distintamente il suo corpo nudo nella fontana: asciutto,
muscoloso, energico.
“Lo
sapevi che Genoveva non vuole che usciamo tutti e quatto insieme?” gli dico.
“Sì,
lo so. Ha paure che le roviniamo la reputazione. Ma non è il caso di metterla
giù così pesante. Ci siamo divertiti, no?”.
“Anche
Javier non l’ha presa molto bene”.
“Il
professore p fatto così. Lo sai meglio di me”.
“No,
meglio di te, no, Ivàn. Ti chiamavo appunto per chiederti di uscire noi tre. Se
Genoveva vuole tenersi fuori sono affari suoi, ma non può rovinare la festa
agli altri”.
Rimane
in silenzio così a lungo che temo che abbia chiuso la comunicazione. E invece
no. Alla fine sento quel tono insolente:
“E
non è meglio se uscite da soli tu e Javier? Che cosa ci faccio, il terzo
incomodo?”.
“Ma
figurati. In tre ci si diverte di più”.
Dio
buono, quello che meno mi aspettavo! Mi piacerebbe sapere cosa vuole adesso la
stronza. Vuole umiliare un’altra volta il professore? Poco ma sicuro. Ma no
faccio la figura del fesso dicendole che prima devo chiedere a lui. A me sta
bene, però che la bambina si ficchi in testa che mi paga. Javier può fare
quello che gli pare, ma io di prese per il culo non ne voglio. Caso mai non
fosse chiaro, glielo dico:
“La
tariffa è la solita, no?”.
“La
solita”.
E
bravo Ivàn. La voce non gli è tremata. La tariffa è la solita. Tutto chiaro e
concreto. Così si fa.
Cazzo,
sono diventato un coglione e allora perché mi sto agitando? Ma che vadano a
farsi fottere tutte e due! Che c’entro io? Io devo pensare a farmi i cazzi
miei. Il professore non ha fatto una piega quando gli ho detto che aveva
chiamato la tipa per uscire con tutti e due. Si vede che lo sapeva già. Lo
spero, almeno, l’ultima cosa che voglio è mettermi nei casini senza
accorgermene. Se la stronza mi vuole usare per qualche scherzo dei suoi, tipo
ingelosire i prof o combinargli qualche carognata gratis, se lo può scordare.
Javier, prima di tutto, è amico mio.
Senza
girarci troppo intorno, chiedo a lui:
“Senti,
prof, lo sai che stasera si fa l’uscita a tre o no?”.
“Si,
lo so”.
“E
mi spieghi questo cosa cazzo mi significa?”.
“Genoveva
non vuole più venire”.
“Sì,
però non è che c’è un po’ di maretta tra voi due?”.
“No”.
“E
tu credi che io c’entri qualcosa tra voi due?”.
“Sì”
Eccomi
servito: sì e no! E caso ma non sapessi cosa vogliono dire queste due parole ma
le vado a cercare su Google. Ma porca zozza! Non può sbottonarsi un po’ di più?
No, non gli va.
Bene,
sta di fatto che quella sera la tipa ci porta al suo ristorante francese
preferito. Tante candele accese, tanti assaggi e assaggini, ma io mi sono
alzato da tavola che avevo fame. Non importa, volevo solo sapere cosa veniva
fuori da quella serata a tre.
(…)
Alla
fine la tipa ha pagato il conto, e prima che qualcuno potesse chiedere cosa si
fa adesso ha proposto di andare a farci delle pippate a casa sua. Javier ha
messo su una faccia da far paura e ha detto: “Ma senza bagno nella fontana”.
Lei lo ha guardato come fosse stato il cameriere e non gli ha manco risposto.
La
casa me la ricordavo bene, ma mi è sembrata meno bella della volta prima.
(…)
La
serata ha cominciato a diventare simpatica, si rideva tutti e tre di Genoveva.
“Io nella fontana non i ci butto perché non so nuotare”, “Io, con la mia
reputazione, prima o poi mi fanno santa in Vaticano”, “vivo dell’assegno del
mio ex, che mi mantiene perché è cieco”. Ciascuno diceva la sua, c’era la gara
a chi la sparava più grossa. E poi ci siamo fatti un’altra striscia. A quel
punto Irene, che era seduta sul divano con Javier, si toglie una scarpa e
comincia ad accarezzargli l’orecchio col ditone del piede. Era il momento di
battere in ritirata, mi sono alzato e ho detto:
“Signori,
è stato molto bello ma io scappo. Domani mi devo alzare presto”.
“Allora
la stronza, con la faccia da culo che ha, dice:
“No,
ve ne andate tutti e due. La serata finisce qui. Domani vi faccio il bonifico”.
Come
un secchio di acqua gelata in faccia. Io sono rimasto lì tipo statua per vedere
che cazzo succedeva. Ma il professore si è alzato molto educatamente, con una
faccia verde di bile che non gli avevo mai visto prima, e ha infilato la porta.
“Chi
scappa sono io. Buonanotte”.
Ho
fatto per andare con lui, ma lui si è voltato con aria feroce.
“Me
ne vado io. Ivàn”.
Ho
aspettato che uscisse e gli sono andato dietro, ho cominciato a scendere le
scale per beccarlo, ma lui era velocissimo, non ce l’avrei mai fatta. E in più
avevo lasciato lo zaino di sopra, l’avevo tutto: patente, soldi, chiavi della
macchina. Allora sono tornato. Sono entrato nel salone. Leo non si era mossa da
dov’era, aveva ancora la gamba stesa come quando faceva la scema toccando
l’orecchio di Javier. Le avrei mollato un ceffone da farle girar la testa.
Anzi, no, l’avrei trascinata giù dal divano e l’avrei messa in ginocchio, per
dargliene tante con una mazza da baseball finché la testa non le cadeva giù,
come una gallina morta. E non era solo una cosa che pensavo, avevo voglia di
farlo davvero, in quel preciso momento. Tanto che ho avuto paura e ho usato il
sistema che uso sempre quando mi viene una rabbia che non ci vedo. Mi immagino
una cascata di acqua gelata e mi metto sotto. L’acqua mi cade addosso da tutte
le parti. Unisco i polsi in alto e il freddo comincia a entrarmi nelle vene.
Calma, calma. Faccio dei bei respiri finché non sono tranquillo. Penso: “Questa
non è la tua guerra, Ivàn”.
“Senti,
Irene, che gioco stai facendo col mio amico?”.
“E
il tuo amico, che gioco sta facendo con me? Glielo hai chiesto?”.
“No,
e non mi va di impicciarmi degli affari degli altri. Ma stasera ce l’hai messa
tutta per farlo incazzare. Prima gli fai il solletico e poi lo mandi via, così,
sotto il mio naso, senza avvisare”.
“Vuoi
un altro whisky?”.
Ci
beviamo un altro whisky. Io continuavo a protestare per la storia del prof, le
dicevo che non si piglia per il culo la gente, che uno come Javier se fa così
lo distrugge. Finché lei diventa tutta seria e mi fa:
“Ma
tu credi che Javier sia pazzo di me? Guarda che non è così, ti sbagli. Javier è
come tutti gli altri, vuole il suo tornaconto. Vuole che io gli trovi un lavoro
per sentirsi una persona normale. Vuole i soldi, ma senza che glieli passi io
direttamente. Vuole che io faccia la sua fidanzata buona e santa, come quella
che aveva prima di conoscere me. Ma ci pensi? È completamente fuori strada,
poveretto. Quindi non venirmi a raccontare che mi ama e io gioco con i suoi
sentimenti, perché non è così, sono tutte frasi fatte”.
Cazzo, tosta la tipa!
Dice le stesse cose che dico io. E lo viene a spiegare a me, questa femmina? A
me? Ma se io come sento la parola amore scappo fino in Cina!
“E tu queste cose a
Javier gliele hai dette?”.
“No, perché? Lui si
fa le sue fantasie e io gliele lascio fare. Tanto se parlassi chiaro non mi
darebbe retta”.
“Sticazzi!” ho detto,
non sapevo cosa dire. E nemmeno c’è stato il tempo di fare altri discorsi
perché quella mi ha preso per un braccio e mi ha trascinato sul divano. Abbiamo
cominciato a limonare duro. È una belva, quella Irene, va come un treno. Mi
sono lasciato andare. Una scopata da ricordare, poche storie. Comincio a capire
perché il prof è tanto preso da lei. E dire che io non perdo mai la testa,
rimane sempre come un buco della serratura da cui controllo tutto, ma quella
volta non ho più capito un cazzo, e quando abbiamo finito non mi ricordavo
nemmeno che nome c’è scritto sulla mia carta di identità. E lei, tutta
tranquilla, mi fa:
“Adesso è meglio che
tu vada, Ivàn. Questa la pago a parte”.
“Deve restare tra noi
due, va bene?”
“Puoi contare sulla
mia discrezione”.
Cazzo che frase, manco
in un film! Mi sorride, le sorrido e me ne vado.
Come entro in
macchina e metto in moto, mi sale una stanchezza che mi addormenterei lì. Mi
sono scopato Irene? Come cazzo è successo? Attrazione fatale? Comunque, rimorsi
non ne ho. Il prof se l’è cercata. In nome di cosa permette a quella stronza di
fare e disfare nella sua vita?
(…)
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