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9 aprile 2018

Da “Uomini nudi” – Alicia Giménez-Bartlett

opera di Jack Vettriano

Da “Uomini nudi” – Alicia Giménez-Bartlett

(…)
Questa relazione con Javier è una specie di esperimento sociologico. In realtà non so che cos’è, però mi piace, mi fa star bene. Quando mi alzo al mattino ho un incentivo per affrontare la giornata, qualcosa a cui pensare che non i fa venire l’angoscia e non mi deprime. Non avrei mai pensato che fosse così eccitante impegnarsi a fondo nei rapporti umani. Immagino che ci riesci soltanto se sei convinta che nessuno può farti del male. E io ne sono convinta. Sono immune al dolore che gli altri possono arrecarmi. Ci sono arrivata molto in fretta, quasi senza accorgermene. Ho attraversato tutte le fasi che seguono una separazione: incredulità, dolore, angoscia, vergogna, rabbia, ansia per il futuro. Le ho vissute disordinatamente, a volte tutte insieme. Adesso mi trovo nella fase dell’eccesso, dell’anarchia. Ed è perfetto così. Non voglio costruire nulla e non ho più nulla da difendere perché la fabbrica è scomparsa. È scomparso tutto quello che mi legava e mi opprimeva. Sono libera.
Conoscere Javier è stato provvidenziale. Godendo del sesso con lui ho capito molte cose. Per esempio, che l’amore non esiste. Se qualche volta nella vita ho rimpianto di non averlo saputo provare o suscitare, adesso posso sentirmi tranquilla. Le coppie stanno insieme solo se c’è equilibrio tra la domanda e l’offerta. Il mio caso conferma la regola. David cercava il successo professionale, e per un po’ lo ha avuto sposando me. Io, sposando David, guadagnavo uno status e un sostegno per l’impresa. C’era equilibrio tra quello che ciascuno di noi voleva e quello che poteva dare. Javier si accontenta di molto meno, poverino, mi fa anche un po’ pena. Ma che cos’ha da offrirmi? Un sogno di felicità così banale, così modesto. Vivere tranquilli in una casa tutta nostra, uscire a cena con gli amici il sabato sera, andare a veder un film ogni tanto, fare la spesa al supermercato. Carino, ma per me è un po’ tardi. Lui invece lascerebbe gli spogliarelli e quegli incontri con le signore che lo umiliano tanto. Mi domando perché. Se fosse una donna capirei. Ma un uomo? Basta guardare Ivàn. Lui sa come gira il mondo e conosce il prezzo della libertà. Lui è libero come sarebbe piaciuto esserlo a me.
Adesso però non ho più niente che mi leghi. Nemmeno l’amicizia. I miei amici sono stati i primi a lasciarmi sola quando mio marito mi ha mollata. Non ho figli, non li ho mai voluti. Questo è l’unico punto su cui mi sono opposta ai progetti di papà. Lui quello che voleva era un erede per la fabbrica. Non che avesse insistito molto, a dire il vero, tra noi non si parlava mai di cose intime. Un erede per la fabbrica! Povero papà! Poveri uomini, in fondo! Sempre così impegnati a fare quello che ci si aspetta da loro. David così preso dalla carriera, dal fascino di un certo mondo; papà così impegnato a far crescere la sua fabbrica e tirare su me. Poveri uomini senza una volontà e un desiderio propri! Perennemente alla rincorsa di scopi che il mondo ha creato per loro.
Ho più di quarant’anni, e finora due cose hanno contato per la mia vita: l’azienda e papà. L’azienda se l’è portata via il vento di questa benedetta crisi. Quanto a papà, da quando quel cretino di uno psichiatra mi ha fatto venire il dubbio che il suo affetto fosse una specie di aggressione, non oso nemmeno pensarci. Malgrado tutto, sono felice. Se qualcosa mi tormenta mi faccio un tiro di coca. Non dipendo da nessuno- è tutto in mio potere. Ho potere.
Chiamo Genoveva per chiederle il numero di Ivàn e poi lo chiamo io direttamente. Lui cui resta di sasso quando gli dico chi sono. È la prima volta che parliamo al telefono. Ricordo distintamente il suo corpo nudo nella fontana: asciutto, muscoloso, energico.
“Lo sapevi che Genoveva non vuole che usciamo tutti e quatto insieme?” gli dico.
“Sì, lo so. Ha paure che le roviniamo la reputazione. Ma non è il caso di metterla giù così pesante. Ci siamo divertiti, no?”.
“Anche Javier non l’ha presa molto bene”.
“Il professore p fatto così. Lo sai meglio di me”.
“No, meglio di te, no, Ivàn. Ti chiamavo appunto per chiederti di uscire noi tre. Se Genoveva vuole tenersi fuori sono affari suoi, ma non può rovinare la festa agli altri”.
Rimane in silenzio così a lungo che temo che abbia chiuso la comunicazione. E invece no. Alla fine sento quel tono insolente:
“E non è meglio se uscite da soli tu e Javier? Che cosa ci faccio, il terzo incomodo?”.
“Ma figurati. In tre ci si diverte di più”.
Dio buono, quello che meno mi aspettavo! Mi piacerebbe sapere cosa vuole adesso la stronza. Vuole umiliare un’altra volta il professore? Poco ma sicuro. Ma no faccio la figura del fesso dicendole che prima devo chiedere a lui. A me sta bene, però che la bambina si ficchi in testa che mi paga. Javier può fare quello che gli pare, ma io di prese per il culo non ne voglio. Caso mai non fosse chiaro, glielo dico:
“La tariffa è la solita, no?”.
“La solita”.
E bravo Ivàn. La voce non gli è tremata. La tariffa è la solita. Tutto chiaro e concreto. Così si fa.

Cazzo, sono diventato un coglione e allora perché mi sto agitando? Ma che vadano a farsi fottere tutte e due! Che c’entro io? Io devo pensare a farmi i cazzi miei. Il professore non ha fatto una piega quando gli ho detto che aveva chiamato la tipa per uscire con tutti e due. Si vede che lo sapeva già. Lo spero, almeno, l’ultima cosa che voglio è mettermi nei casini senza accorgermene. Se la stronza mi vuole usare per qualche scherzo dei suoi, tipo ingelosire i prof o combinargli qualche carognata gratis, se lo può scordare. Javier, prima di tutto, è amico mio.
Senza girarci troppo intorno, chiedo a lui:
“Senti, prof, lo sai che stasera si fa l’uscita a tre o no?”.
“Si, lo so”.
“E mi spieghi questo cosa cazzo mi significa?”.
“Genoveva non vuole più venire”.
“Sì, però non è che c’è un po’ di maretta tra voi due?”.
“No”.
“E tu credi che io c’entri qualcosa tra voi due?”.
“Sì”
Eccomi servito: sì e no! E caso ma non sapessi cosa vogliono dire queste due parole ma le vado a cercare su Google. Ma porca zozza! Non può sbottonarsi un po’ di più? No, non gli va.
Bene, sta di fatto che quella sera la tipa ci porta al suo ristorante francese preferito. Tante candele accese, tanti assaggi e assaggini, ma io mi sono alzato da tavola che avevo fame. Non importa, volevo solo sapere cosa veniva fuori da quella serata a tre.
(…)
Alla fine la tipa ha pagato il conto, e prima che qualcuno potesse chiedere cosa si fa adesso ha proposto di andare a farci delle pippate a casa sua. Javier ha messo su una faccia da far paura e ha detto: “Ma senza bagno nella fontana”. Lei lo ha guardato come fosse stato il cameriere e non gli ha manco risposto.
La casa me la ricordavo bene, ma mi è sembrata meno bella della volta prima.
(…)
La serata ha cominciato a diventare simpatica, si rideva tutti e tre di Genoveva. “Io nella fontana non i ci butto perché non so nuotare”, “Io, con la mia reputazione, prima o poi mi fanno santa in Vaticano”, “vivo dell’assegno del mio ex, che mi mantiene perché è cieco”. Ciascuno diceva la sua, c’era la gara a chi la sparava più grossa. E poi ci siamo fatti un’altra striscia. A quel punto Irene, che era seduta sul divano con Javier, si toglie una scarpa e comincia ad accarezzargli l’orecchio col ditone del piede. Era il momento di battere in ritirata, mi sono alzato e ho detto:
“Signori, è stato molto bello ma io scappo. Domani mi devo alzare presto”.
“Allora la stronza, con la faccia da culo che ha, dice:
“No, ve ne andate tutti e due. La serata finisce qui. Domani vi faccio il bonifico”.
Come un secchio di acqua gelata in faccia. Io sono rimasto lì tipo statua per vedere che cazzo succedeva. Ma il professore si è alzato molto educatamente, con una faccia verde di bile che non gli avevo mai visto prima, e ha infilato la porta.
“Chi scappa sono io. Buonanotte”.
Ho fatto per andare con lui, ma lui si è voltato con aria feroce.
“Me ne vado io. Ivàn”.
Ho aspettato che uscisse e gli sono andato dietro, ho cominciato a scendere le scale per beccarlo, ma lui era velocissimo, non ce l’avrei mai fatta. E in più avevo lasciato lo zaino di sopra, l’avevo tutto: patente, soldi, chiavi della macchina. Allora sono tornato. Sono entrato nel salone. Leo non si era mossa da dov’era, aveva ancora la gamba stesa come quando faceva la scema toccando l’orecchio di Javier. Le avrei mollato un ceffone da farle girar la testa. Anzi, no, l’avrei trascinata giù dal divano e l’avrei messa in ginocchio, per dargliene tante con una mazza da baseball finché la testa non le cadeva giù, come una gallina morta. E non era solo una cosa che pensavo, avevo voglia di farlo davvero, in quel preciso momento. Tanto che ho avuto paura e ho usato il sistema che uso sempre quando mi viene una rabbia che non ci vedo. Mi immagino una cascata di acqua gelata e mi metto sotto. L’acqua mi cade addosso da tutte le parti. Unisco i polsi in alto e il freddo comincia a entrarmi nelle vene. Calma, calma. Faccio dei bei respiri finché non sono tranquillo. Penso: “Questa non è la tua guerra, Ivàn”.
“Senti, Irene, che gioco stai facendo col mio amico?”.
“E il tuo amico, che gioco sta facendo con me? Glielo hai chiesto?”.
“No, e non mi va di impicciarmi degli affari degli altri. Ma stasera ce l’hai messa tutta per farlo incazzare. Prima gli fai il solletico e poi lo mandi via, così, sotto il mio naso, senza avvisare”.
“Vuoi un altro whisky?”.
Ci beviamo un altro whisky. Io continuavo a protestare per la storia del prof, le dicevo che non si piglia per il culo la gente, che uno come Javier se fa così lo distrugge. Finché lei diventa tutta seria e mi fa:
“Ma tu credi che Javier sia pazzo di me? Guarda che non è così, ti sbagli. Javier è come tutti gli altri, vuole il suo tornaconto. Vuole che io gli trovi un lavoro per sentirsi una persona normale. Vuole i soldi, ma senza che glieli passi io direttamente. Vuole che io faccia la sua fidanzata buona e santa, come quella che aveva prima di conoscere me. Ma ci pensi? È completamente fuori strada, poveretto. Quindi non venirmi a raccontare che mi ama e io gioco con i suoi sentimenti, perché non è così, sono tutte frasi fatte”.
Cazzo, tosta la tipa! Dice le stesse cose che dico io. E lo viene a spiegare a me, questa femmina? A me? Ma se io come sento la parola amore scappo fino in Cina!
“E tu queste cose a Javier gliele hai dette?”.
“No, perché? Lui si fa le sue fantasie e io gliele lascio fare. Tanto se parlassi chiaro non mi darebbe retta”.
“Sticazzi!” ho detto, non sapevo cosa dire. E nemmeno c’è stato il tempo di fare altri discorsi perché quella mi ha preso per un braccio e mi ha trascinato sul divano. Abbiamo cominciato a limonare duro. È una belva, quella Irene, va come un treno. Mi sono lasciato andare. Una scopata da ricordare, poche storie. Comincio a capire perché il prof è tanto preso da lei. E dire che io non perdo mai la testa, rimane sempre come un buco della serratura da cui controllo tutto, ma quella volta non ho più capito un cazzo, e quando abbiamo finito non mi ricordavo nemmeno che nome c’è scritto sulla mia carta di identità. E lei, tutta tranquilla, mi fa:
“Adesso è meglio che tu vada, Ivàn. Questa la pago a parte”.
“Deve restare tra noi due, va bene?”
“Puoi contare sulla mia discrezione”.
Cazzo che frase, manco in un film! Mi sorride, le sorrido e me ne vado.
Come entro in macchina e metto in moto, mi sale una stanchezza che mi addormenterei lì. Mi sono scopato Irene? Come cazzo è successo? Attrazione fatale? Comunque, rimorsi non ne ho. Il prof se l’è cercata. In nome di cosa permette a quella stronza di fare e disfare nella sua vita?
(…)

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