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24 maggio 2018

da “Cronaca di una morte annunciata” - Gabriel Garcia Marquez

da “Cronaca di una morte annunciata” - Gabriel Garcia Marquez

Il giorno che l’avrebbero ucciso, Santiago Nasar si alzò alle 5 e 30 del mattino per andare ad aspettare il battello con cui arrivava il vescovo. Aveva sognato di attraversare un bosco di higuerones sotto una pioggerella tenera, e per un istante fu felice dentro il sogno, ma al risveglio si sentì inzaccherato da capo a piede di cacca d’uccelli. “Sognava sempre alberi” mi disse sua madre, Plàcida Linero, rievocando ventisette anni dopo i particolari di quel lunedì ingrato. “La settimana prima aveva sognato di viaggiare da solo su un aereo di carta stagnola che volava senza mai trovare ostacoli in mezzo ai mandorli” mi disse. Plàcida Linero godeva di un ben meritata fama di sicura interprete dei sogni altrui, a patto che glieli raccontassero a digiuno, ma non aveva avvertito il minimo segno di malumore in quei due sogni di suo figlio, né negli altri sogni con alberi che lui le aveva raccontato nei giorni che precedettero la sua morte.
Neppure Santiago Nasar riconobbe il presagio. Aveva dormito poco e male, senza nemmeno spogliarsi, e si svegliò con il mal di testa e con un sedimento di limatura di rame sul palato. Li intrpretò come inconvenienti naturali della grande festa di nozze che si era prolungata fin oltre la mezzanotte. Di più: le numerose persone che incontrò da quando uscì di casa alle 6 e 05 fino a quando venne squartato come un maiale un’ora dopo lo ricordavano un po’ insonnolito ma di buonumore, e a tutti fece notare in modo casuale che era una bella giornata. Nessuno avrebbe giurato che alludesse alle condizioni del tempo. Molti coincidevano nel ricordare che era una mattina scintillante percorsa da una brezza marina che arrivava attraverso i bananeti, come era logico che fosse in un normale febbraio di quell’epoca. La maggioranza, però, era concorde nel dire che c’era un tempo funereo, con un cielo torbido e basso e un denso odore di acque stagnanti, e che nel momento della disgrazia stava cadendo una pioggerella minuta come quella che Santiago Nasar aveva visto nel bosco del suo sogno. Io mi stavo rimettendo dai bagordi delle nozze nel grembo apostolico di Maìa Alejandrina Cervantes, e mi svegliai a stento con il baccano delle campane che suonavano a martello, perché pensai che le avevano scatenate in onore del vescovo.
Santiago Nasar indossò un paio di pantaloni e una camicia di lino bianco non inamidati, uguali a quelli che si era messo il giorno prima per le nozze. Era un abbigliamento da grande occasione. Se non fosse per l’arrivo del vescovo avrebbe indossato il vestito cachi e gli stivali da cavallo con cui andava ogni lunedì a l Divino Rostro, la fattoria con allevamento di bestiame che aveva ereditato da suo padre e che amministrava con molto senno anche se con poca fortuna. In campagna portava alla cintura una 357 Magnum, i cui proiettili blindati, a quanto diceva lui, potevano spaccare un cavallo a metà. In epoca di pernici portava anche la sua attrezzatura da falconeria. Nell’armadio teneva inoltre un fucile 30,06 Mannlicher-Schonauer, un fucile 300 Holland Magnum, un 22 Hornet con doppio mirino telescopico e una Winchester a ripetizione. Dormiva sempre come aveva dormito suo padre, con l’arma nascosta dentro la federa del cuscino, ma quel giorno prima di lasciare la casa ne tolse via i proiettili e la mise nel cassetto del comodino. “Non la lasciava mai carica” mi disse sua madre. Io lo sapevo, e sapevo anche che riponeva le armi in un posto e nascondeva le munizioni in un altro molto appartato, in modo che nessuno, neanche per sbaglio, cedesse alla tentazione di caricarle dentro casa. Era una saggia abitudine che suo padre aveva imposto da quando una mattina una domestica aveva scosso il fucile per togliere la federa, e la pistola aveva lascito partire un colpo urtando contro il pavimento. La pallottola distrusse l’armadio della camera, attraversò la parete del salotto, passò con fracasso di guerra per la sala da pranzo della casa vicina e ridusse in polvere di gesso un santo a grandezza naturale sull’altare maggiore della chiesa, all’altro estremo della piazza. Santiago Nasar, che a quel tempo era molto piccolo, non dimenticò mai la lezione di quella disavventura.
L’ultima immagine che sua madre conservava di lui era quella del suo passaggio fugace in camera da letto. L’aveva svegliata mentre cercava di trovare a tentoni un’aspirina nell’armadietto del bagno, e lei accese la luce e lo vide comparire sulla porta con il bicchiere d’acqua in mano, come l’avrebbe ricordato sempre. Santiego Nasar le raccontò allora il sogno, ma lei non fece caso agli alberi.
“Tutti i sogni con uccelli sono di buon augurio” disse.
Lo vide dalla stessa amaca e nella stessa posizione in cui la trovai prostrata dalle ultime luci della vecchiaia, quando tornai in questo paese dimenticato per cercare di ricomporre con tante schegge sparse lo specchio rotto della memoria. A stento riusciva a distinguere le forme in piena luce, e teneva foglie medicinali sulle tempie per il mal di testa eterno che le aveva lasciato il figlio l’ultima volta che era passato per la sua camera. Era distesa sul fianco, aggrappata alle corde d’agave del capezzale dell’amaca per cercare di tirarsi su, e c’era nella penombra l’odore di battistero che mi aveva sorpreso la mattina del delitto.
(…)

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