dipinto di Kenton Nelson
da Il libro dell’inquietudine –
Fernando Pessoa
26.
Dopo che le
ultime gocce di pioggia hanno cominciato ad attardarsi lungo il declivio dei
tetti, e nel centro lastricato della strada l’azzurro del cielo ha lentamente
cominciato a rispecchiarsi, il rumore dei veicoli ha assunto un altro canto,
più alto e allegro, e si è udito il dischiudersi di finestre incontro al sole
che riappariva. Allora, là in fondo, lungo la via stretta, vicino all’angolo
della strada, si è sentito irrompere il richiamo alto del primo venditore di
biglietti della lotteria, e i chiodi infilati nelle casse della bottega di
fronte hanno cominciato a riverberare nello spazio chiaro. Era un incerto
giorno festivo, legale ma di scarsa osservanza. C’era riposo e lavoro allo
stesso tempo, e io non avevo niente da fare. Mi ero alzato presto e mi
attardavo a prepararmi ad esistere. Passeggiavo da un lato all’altro della
stanza, tutto immerso in sogni senza nesso e possibilità – gesti che avevo
dimenticato di fare, ambizioni impossibili realizzate senza una direttrice,
conversazioni ferme e continue che, se fossero avvenute, sarebbero state. E in
questo vaneggiare privo di grandezza e di calma, in questo attardarmi senza
speranza e fine, consumavo sui miei passi la mattinata libera e le mie parole
alte, dette a bassa voce, risuonavano multiple nel chiostro del mio semplice
isolamento. La mia figura umana, se la esaminavo dall’esterno con attenzione,
mi appariva ridicola come è ridicola ogni cosa umana nell’intimità. Avevo
indossato, sopra gli indumenti semplici del sonno finito, un vecchio cappotto,
che mi torna utile in queste veglie mattutine. Le mie vecchie pantofole erano
rotte, soprattutto quella del piede sinistro. E, con le mani nelle tasche del
paltò postumo, percorrevo il viale della mia stanza corta a passi lunghi e
decisi, compiendo con inutile vaneggiare un sogno uguale a quello di ogni
persona. Attraverso il fresco aperto della mia unica finestra, si udivano
ancora cadere dai tetti le grosse gocce, accumulatesi per la pioggia passata.
Ancora, vago, si avvertiva il fresco della pioggia avvenuta. Il cielo, però,
era di un azzurro ammaliante, e le nuvole che restavano della pioggia vinta o
stanca cedevano, ritirandosi al di sopra dei lati del castello, legittimamente
il passo del cielo tutto. Era l’occasione per essere allegro. Ma mi pesava un
qualcosa, un’ansia sconosciuta, un desiderio indefinito, neanche ordinario. Rallentava,
forse, la sensazione di essere vivo. E quando mi sono affacciato alla finestra
altissima, sulla via che ho guardato senza vederla, mi sono sentito
improvvisamente uno di quegli stracci umidi utilizzati per pulire le cose
sporche, e che si appendono alla finestra ad asciugare, ma che si dimenticano,
attorcigliati, sul parapetto che macchiano lentamente.
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