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29 maggio 2018

da “Sotto le ciglia chissà” - Fabrizio De Anrè

da “Sotto le ciglia chissà” - Fabrizio De Anrè

Esiste navigando un desiderio che sta al di là della necessità di capire: la meta non è più arrivare: è navigare; contro il tempo, malgrado il tempo, a favore del tempo, nonostante il tempo, in mezzo al tempo.
Fabrizio De André


Mi comperai la vita con i canti e i sorrisi.

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Dimostro di avere sempre avuto, sia da giovane che da anziano, pochissime idee ma in compenso fisse.

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Non chiedete a uno scrittore di canzoni che cosa ha pensato, che cosa ha sentito prima dell’opera: è proprio per non volervelo dire che si è messo a scrivere. La risposta è nell’opera.

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Perché scrivo? Per paura. Per paura che si perda il ricordo della vita delle persone di cui scrivo. Per paura che si perda il ricordo di me. O anche solo per essere protetto da una storia, per scivolare in una storia e non essere più riconoscibile, controllabile, ricattabile.

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Gli artisti, maledizione! Un intellettuale integrato, poverino, io lo capisco: è uno che legge dentro le righe e capisce quello che succede molto più degli altri. Capisco che se non è artista, se non riesce a trasformare quello che capisce in qualcosa d’altro che arriva ancora meglio, deve integrarsi: l’artista è un anticorpo che la società si crea contro il potere. Se si integrano gli artisti, ce l’abbiamo nel culo!

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Difficilmente vado in cerca di un’idea: aspetto pazientemente di esserne aggredito.

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Raramente un artista è stato un eroe. Più spesso vive isolato e come timidissimo coniglio.

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Si comincia col prendere una chitarra e si finisce col prendere della fica.

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Quando si comincia ad usare la chitarra per fare canzoni si perde amore per lo strumento e lo strumento ti contraccambia come una moglie trascurata; bisogna sottoporsi a grossi recuperi e a vistosi corteggiamenti.

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Una canzone, come ogni altra forma di espressione artistica o parartistica, deve servire a qualcosa: può servire a creare un attimo di distensione, un momento di spensieratezza e certe volte può essere utile a far pensare, meditare su determinati problemi.

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Il dato più certo che emergeva dalle canzoni di Luigi [Tenco], soprattutto da quelle a sfondo sociale e, per chi lo conosceva bene, anche dal suo comportamento e dai suoi discorsi, era una sorta di orrore per l’ingiustizia: di solito però questo disgusto per l’ingiustizia, soprattutto sociale, era accompagnato da una ferma volontà di cambiare le cose e questo secondo dato, sicuramente positivo, era quello che lo faceva agire, scrivere canzoni, lo sollevava da un certo pessimismo di fondo, lo confortava di un certo ottimismo.

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Di un omicidio sono responsabili soltanto gli autori del crimine ed eventualmente i loro mandanti; di un suicidio, invece, è generalmente responsabile tutta la società o almeno quella microsocietà che lo ha reso possibile.

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Questo nostro mondo è diviso in vincitori e vinti, dove i primi sono tre e i secondi tre miliardi. Come si può essere ottimisti?

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Saremmo messi bene se ci dovessimo accontentare delle chiose socio-politiche di De André. Anche ammesso, e per niente concesso, un paritetico livello culturale con uno Sciascia, mi pare ci siano anni luce di distanza tra la mia e la loro [di Sciascia e altri intellettuali] capacità di analisi, tra i miei versi per canzone e la loro forza letteraria. Il problema è che con la loro scomparsa siamo rimasti orfani dei migliori polemisti nazionali e gli spazi vuoti, si sa, bisogna riempirli in qualche modo, magari con surrogati meno tristi dell’orzo, per esempio ascoltandosi un disco di De André o di De Gregori, oppure appendendosi alle bretelle sempre più scolorite di Ferrara. Rimane il conforto di Gianni Borgna, che se da un lato mi meraviglia, dall’altro appaga il mio sfrenato narcisismo.

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