(…)
Quella sera ero in
giacchetta. Siccome erano appassionate di stoffe e di vestiti, altra
rivelazione, mi divertivo a drappeggiarmi per loro. Senza mai avere nel pomeriggio
altra occupazione che esigesse altro indumento che il gabbano da pittore,
mostravo loro tutto il guardaroba di un
giovinotto moderno, accampando falsi pretesti. Dicevo d'aver giocato al tennis,
ed esse ammiravano il mio costumino di flanella, le mie camicie bianche fatte
per il sole, che non avevano su di loro che luna e rugiada. Come avrebbero
desiderato di coprire con questi colori i loro figliuoli, ai quali i Rebendart
non avevano accordato fin dal battesimo che il nero! Dicevo d'aver avuto un
pranzo a Troyes e arrivavo in marsina, impeccabile, dinanzi a quei frutteti di
susine, in marsina per i salici. Apprendevano così che l'abito da società comporta
un taschino, i Rebendart non avevano taschino. Ogni atto che avvicina la mano
al cuore, anche per prendere un fazzoletto, non era loro familiare. Bisognava
altresì spiegar loro il meccanismo che allaccia le perle del petto, la catenina
per l'orologio e perfino il bottoncino a molla del collo. Saggiavano il segreto.
Apportavo loro finalmente questa scienza dell'abbigliamento mascolino che hanno
così naturalmente le donne malvagie. Vedevano alla fine su di un uomo
biancheria morbida, seta; sembrava loro che la vita si fosse rammorbidita per
gli uomini. Sembrava loro che la dolcezza si fosse posata sugli uomini. Carezzavano
le mie cravatte, i miei capelli. Andai in costume di studio, mostrai su di me
anche i colori, perchè la mia casacca era diventata una vera tavolozza. Vi
trovavano il colore degli occhi di Rebendart, il presidente. Ne erano commosse;
v'era sempre stato del colore, il colore delle cilestrine, in quel corpo presidenziale!...
Così topo d'albergo variopinto, sospingevo la barriera del loro dominio. I cani
sprofondati in quel primo sonno che soggioga anche i portinai, abbaiavano poco.
Giungevo, senz'essere avvertito o indovinato, fino alla sala a vetri dove m'attendevano.
Discutevano esse: udivo le loro voci. La zia ammoniva la cognata: – No! il
simbolo del capriccio era Ariele e non Calibano! Perchè? Perchè è così. No, il Battello
ebbro non era di Fernand Gregh. Perchè? Perchè Fernand Gregh non aveva
corrotto la propria giovinezza a Parigi, perchè non era morto in Abissinia! Come,
non era vero?... Allora spingevo la porta, giudice delle parole, ritiravo a
Calibano quella regalità di un minuto sulla bellezza e lo spirito, a Fernand
Gregh le illuminazioni... Ma, quella sera, una terza voce s'insinuava fra le
loro due voci, una voce pure di donna, ma alquanto ràuca, velata fino allo
strozzamento, qualche amica d'infanzia arrivata d'improvviso o attratta da loro
in quel tranello teso nei dintorni di Reims alle vecchie anime poetiche.
Preparato ad affrontare una nuova incarnazione della vecchiaia, con
l'attrattiva di un nuovo cuore anziano e patètico, bussavo...
Indovinate adesso la
ragione di questo prologo, la giustificazione di quelle ore in cui andavo a
fare il manichino di Doucet e di Shakespeare dinanzi alle signore Rebendart.
Fra loro due, seduta su una di quelle sedie basse di felpa imbottita che
isolano in Francia la borghesia dalla morte, seduta quasi in terra, con le gambe
mezzo incrociate, stava una giovane. Faceva caldo, quella notte. La donna aveva
le braccia nude, un abito leggiero. Il Tokay, ch'essa aveva stappato le era di fianco.
Era dorata dall'estate, sembrava uscita dalla bottiglia. Io, che avevo
pretestato una visita al presidente della Corte di Nancy per rivelare la giacchetta
in drappo felpato, m'inchinai col cappello di seta. In tenuta da matrimonio,
con un giunco d'oro nella mano sinistra, le tesi la mano destra per aiutarla a sollevarsi,
come se le avessi fatto passare un guado, e lo slancio che prese fu così forte
che mi cadde un poco addosso, ella cadde nella mia vita. Credetti, da principio,
che le due vecchie signore non avessero potuto, come tutti coloro che trovano
un tesoro e lo mostrano proprio al più avaro e al conoscitore, resistere al
desiderio di mostrare a una giovane, il console speciale inviato loro in quella
estate dalle potenze della letteratura e della moda. M'ingannavo. Era la nuora
del vecchio Presidente Rebendart, assente per qualche giorno, che scendeva a
veglia dalle zie. Anch'essa fu sorpresa perché le mie due amiche non avevano
neppur pensato a dirle che ero giovane. La serata fu pesante, di una gravità
che le vecchie signore attribuirono l'una alla nevralgia, l'altra all'uragano,
e che proveniva semplicemente dalla presenza della giovinezza. Non compresero perché
rifiutassi, quella sera, di essere il loro
lettore, e di spiegar Platone e Teòcrito, come dovevo fare in un'ora. Tutte
quelle favole, quegli eroi ed eroine, quegli scrittori che si prestavano a me
quando ero solo, con compiacenza per un gioco anodino, scamparono davanti a
Bella. Al vederla sentivo tutte le finzioni che di solito sguinzagliavo senza
pericolo in quella sala, riprendere il loro veleno, la loro virtù, e Bella,
d'altronde, nulla faceva per animar la serata. L'uomo più facondo di Francia
aveva per nuora la donna più silenziosa. Questa evaporazione che è la parola
non arrivava a prodursi su di lei, tanto era sotterraneo e lontano da lei il
suo pensiero. I pastori di Teòcrito adescati dalle mie vecchie amiche fuggivano
con tutti i loro sandali verso l'antichità alla vista di quel bel viso moderno come alla vista della Medusa. Mi
sentivo, oltre il mio cappello a cilindro, carico ridicolmente dei loro vincastri.
Tutta una cavalleria di Centauri, o di Amazzoni, che m'ero abituato da un mese
a recidere innocente, si trovava di colpo a fronte d'una vera guerra, e si
precipitava... Alla fine, suonò la mezzanotte.
Accompagnai con Bella
la zia, poi accompagnai Bella stessa fino alla casa sulla collina. Le poche
stelle di cui so il nome stavano dietro di me, la via lattea andava dalla mia
destra alla mia sinistra, prendevamo dunque il cielo di scorcio. Le
consuetudini che avevo incoscientemente fin dall'infanzia nella notte, che m'orientavano
sempre nello stesso senso dacché compariva la Grande Orsa, eran distrutte o
contrariate da questo andare: avevo l'avvenire sulle spalle, il fervore lontano
nella destra, l'ignoto davanti. Bella aveva preso il mio braccio. Tutto il
vocabolario preparato sulle labbra per la serata di Teòcrito, il citiso, il
rosmarino, i pioppi lievi, vanivano alla vista di quei gerani, di quelle
begonie e ridiscendevo in un dominio ponderoso. Così ogni volta che Rebendart
si disponeva per parlare dai morti la nuora si disponeva a tacer dai vivi.
(…)
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