dipinto di Peregrine Heathcote
da “Dizionario delle cose perdute” – Francesco Guccini
(…)
Il telefono
Ricordo, a memoria, circa otto numeri di telefono, con uno sforzo posso arrivare a dieci, e cinque o sei prefissi. A volte però “mi incanto”, come si dice, e anche il numero di casa può sfuggirmi e annaspo penosamente nella memoria - il numero di casa propria non si ricorda quasi mai. Ricordo però alla perfezione il primo numero di telefono della mia vita, 32417, per la cronaca, numero dell’apparecchio entrato trionfalmente in casa nel lontano ‘57. Non si usava il prefisso per le chiamate urbane e di sicuro ignoravo quello della mia città se avessi voluto, da fuori, fare un’interurbana. Ma non sono certo che ci fosse, il prefisso, forse ci sono stati tempi in cui, per fare un’interurbana, bisognava chiamare la TIMO e fare la richiesta a una cortese signorina, che provvedeva alla bisogna. Cos’era la TIMO (Telefoni Italia Medio Orientale)? Be’, prima dell’unificazione, nel ‘64, delle varie telefonie in un’unica società, la SIP, c’erano diverse compagnie, e se la TIMO era per l’Emilia Romagna, Marche e Umbria, così la TETI (Telefonica Tirrenica) era per la Toscana, la TELVE (Telefonica Veneta) per le Venezie - Veneto, Friuli e Alto Adige - e, prima della guerra, anche Fiume e Zara, la STIPEL (Società Telefonica Interregionale Piemonte e Lombardia) era appunto per Piemonte, Lombardia e anche Liguria. Altre, forse da me poco frequentate, mi sfuggono.
Perché ricordo il primo numero? Perché avere il telefono era una cosa importante, come si può facilmente immaginare, una conquista raggiunta nell’ambito familiare, così come, per quei tempi, avere la televisione, il frigorifero e, perché no, l’utilitaria sotto casa. Guardavi dei film americani e vedevi, anche in case di povera gente, il telefono attaccato al muro. E noi no?
Oggi, coi cellulari, il telefono fisso si usa molto meno, ma allora era un’altra cosa. Anzitutto non si mise a cuor leggero, ci fu forse un dibattito casalingo (“Quanta sarà la spesa? E lui - io poi - non starà sempre attaccato al telefono?”) e favorì la decisione positiva il fatto che un collega di mio padre, abitante al piano di sopra, ci aveva chiesto se eravamo interessati al duplex.
Questa parola, oggi credo sconosciuta ai più, significava praticamente avere due numeri di telefono ma una linea sola, a dire che se uno dei due telefonava l’altro utente restava muto. Ma si risparmiava molto sulla bolletta.
Il telefono era nell’ingresso, attaccato al muro. Non so il perché, ma non veniva messo nel soggiorno o in altra stanza. Era di bachelite, nero (i telefoni bianchi, appoggiati su un tavolino, simbolo di dissoluta ricchezza anni Trenta, erano solo preda in certi film di lascive femmine dalla dubbia professione, in vestaglia di seta e sigaretta con lungo bocchino), e a disco rotante, con filo di solito liscio ma, mi si dice, a volte anche arricciolato. Non ricordo quando il primo squillo echeggiò, rumore nuovo e inconsueto e allora vagamente inquietante. Credo di essere stato io ad alzarmi precipitosamente e andare a rispondere. Che emozione fu quella di dire “Pronto” dal primo telefono di casa?!
Mio padre non lo usava spesso, uomo d’altri tempi e di poche parole che guardava con grande sospetto ogni innovazione tecnica (be’, io, suo figlio, non ho a tutt’oggi il telefonino); credo l’abbia adoperato non più di cinque volte nella sua vita. Mia madre l’usava di rado, ma in quei momenti prendeva una sedia e si accomodava, a significare che la nuova macchina non era tanto per comunicare, quanto per conversare amabilmente a distanza con amiche e parenti, il che, alle volte, provocava l’aprirsi della finestra del piano di sopra e il sentire una voce irritata che sollecitava l’abbandono della linea. La cosa, naturalmente, poteva essere reciproca.
Si usa ancora il telefono fisso? Si usa sì, ma il cellulare trionfa. Si è creato un nuovo gergo (“Non ho campo. Tu hai campo?”, “Io sì, ma che server adoperi?
Adesso mi sposto, mi senti meglio?”). Ci sono continue pubblicità televisive di telefonini che hanno tutto, internet compreso, solo non fanno le famose asole e non attaccano i bottoni. Li guardo stupito, meravigliato e un poco spaventato, un po’ come mia nonna paterna quando, un giorno, scesa dalla montagna per una visita, la sorpresi di fronte al telefono che squillava. Lo guardava sgomenta e mormorava: «O poveretta me, adesso cosa devo fare?».
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Il telefono
Ricordo, a memoria, circa otto numeri di telefono, con uno sforzo posso arrivare a dieci, e cinque o sei prefissi. A volte però “mi incanto”, come si dice, e anche il numero di casa può sfuggirmi e annaspo penosamente nella memoria - il numero di casa propria non si ricorda quasi mai. Ricordo però alla perfezione il primo numero di telefono della mia vita, 32417, per la cronaca, numero dell’apparecchio entrato trionfalmente in casa nel lontano ‘57. Non si usava il prefisso per le chiamate urbane e di sicuro ignoravo quello della mia città se avessi voluto, da fuori, fare un’interurbana. Ma non sono certo che ci fosse, il prefisso, forse ci sono stati tempi in cui, per fare un’interurbana, bisognava chiamare la TIMO e fare la richiesta a una cortese signorina, che provvedeva alla bisogna. Cos’era la TIMO (Telefoni Italia Medio Orientale)? Be’, prima dell’unificazione, nel ‘64, delle varie telefonie in un’unica società, la SIP, c’erano diverse compagnie, e se la TIMO era per l’Emilia Romagna, Marche e Umbria, così la TETI (Telefonica Tirrenica) era per la Toscana, la TELVE (Telefonica Veneta) per le Venezie - Veneto, Friuli e Alto Adige - e, prima della guerra, anche Fiume e Zara, la STIPEL (Società Telefonica Interregionale Piemonte e Lombardia) era appunto per Piemonte, Lombardia e anche Liguria. Altre, forse da me poco frequentate, mi sfuggono.
Perché ricordo il primo numero? Perché avere il telefono era una cosa importante, come si può facilmente immaginare, una conquista raggiunta nell’ambito familiare, così come, per quei tempi, avere la televisione, il frigorifero e, perché no, l’utilitaria sotto casa. Guardavi dei film americani e vedevi, anche in case di povera gente, il telefono attaccato al muro. E noi no?
Oggi, coi cellulari, il telefono fisso si usa molto meno, ma allora era un’altra cosa. Anzitutto non si mise a cuor leggero, ci fu forse un dibattito casalingo (“Quanta sarà la spesa? E lui - io poi - non starà sempre attaccato al telefono?”) e favorì la decisione positiva il fatto che un collega di mio padre, abitante al piano di sopra, ci aveva chiesto se eravamo interessati al duplex.
Questa parola, oggi credo sconosciuta ai più, significava praticamente avere due numeri di telefono ma una linea sola, a dire che se uno dei due telefonava l’altro utente restava muto. Ma si risparmiava molto sulla bolletta.
Il telefono era nell’ingresso, attaccato al muro. Non so il perché, ma non veniva messo nel soggiorno o in altra stanza. Era di bachelite, nero (i telefoni bianchi, appoggiati su un tavolino, simbolo di dissoluta ricchezza anni Trenta, erano solo preda in certi film di lascive femmine dalla dubbia professione, in vestaglia di seta e sigaretta con lungo bocchino), e a disco rotante, con filo di solito liscio ma, mi si dice, a volte anche arricciolato. Non ricordo quando il primo squillo echeggiò, rumore nuovo e inconsueto e allora vagamente inquietante. Credo di essere stato io ad alzarmi precipitosamente e andare a rispondere. Che emozione fu quella di dire “Pronto” dal primo telefono di casa?!
Mio padre non lo usava spesso, uomo d’altri tempi e di poche parole che guardava con grande sospetto ogni innovazione tecnica (be’, io, suo figlio, non ho a tutt’oggi il telefonino); credo l’abbia adoperato non più di cinque volte nella sua vita. Mia madre l’usava di rado, ma in quei momenti prendeva una sedia e si accomodava, a significare che la nuova macchina non era tanto per comunicare, quanto per conversare amabilmente a distanza con amiche e parenti, il che, alle volte, provocava l’aprirsi della finestra del piano di sopra e il sentire una voce irritata che sollecitava l’abbandono della linea. La cosa, naturalmente, poteva essere reciproca.
Si usa ancora il telefono fisso? Si usa sì, ma il cellulare trionfa. Si è creato un nuovo gergo (“Non ho campo. Tu hai campo?”, “Io sì, ma che server adoperi?
Adesso mi sposto, mi senti meglio?”). Ci sono continue pubblicità televisive di telefonini che hanno tutto, internet compreso, solo non fanno le famose asole e non attaccano i bottoni. Li guardo stupito, meravigliato e un poco spaventato, un po’ come mia nonna paterna quando, un giorno, scesa dalla montagna per una visita, la sorpresi di fronte al telefono che squillava. Lo guardava sgomenta e mormorava: «O poveretta me, adesso cosa devo fare?».
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