dipinto di Fabian Perez
da Il libro dell’inquietudine – Fernando Pessoa
37.
Mi sento a volte preso, non so perché, da un preavviso di morte… un malessere indefinito, che non si materializza in dolore e per questo tende a spiritualizzarsi in un fine, cioè, una stanchezza che richiede un sonno così profondo che il dormire non gli basta – certo è che sento come se, sfinito per la malattia, alla fine aprissi privo di forze e di rimpianti le deboli mani sulla coltre rimboccata. Rifletto, allora, su questa cosa che chiamiamo morte. Non voglio dire il mistero della morte, che non riesco a penetrare, ma la sensazione fisica di cessare di vivere. L’umanità ha paura della morte, ma in modo indefinito; l’uomo normale si batte bene nella prova, l’uomo normale, malato o vecchio, raramente guarda con orrore l’abisso del nulla che egli attribuisce a questo stesso abisso. Tutto ciò è mancanza di immaginazione. Non c’è niente di più errato del ritenere la morte simile al sonno. Perché dovrebbe esserlo se la morte non assomiglia al sonno? L’essenza del sonno è il destarsi da esso, ma dalla morte – suppongo – non ci si desta. E se la morte somiglia al sonno, dovremo avere la nozione che ci si desti da essa. Tuttavia, non è questo ciò che l’uomo normale si figura: si figura per sé la morte come un sonno dal quale non ci si risveglia, il che non vuole dire niente. La morte, l’ho detto, non somiglia al sonno, poiché nel sonno si è vivi e dormienti; non so come si possa ritenere la morte simile a qualche cosa, se non si ha esperienza di essa, o non si ha una cosa cui raffrontarla. A me, quando vedo un morto, la morte sembra una partenza. Il cadavere mi dà l’impressione di un abito abbandonato. Qualcuno se ne è andato e non ha avuto bisogno di portare con sé quell’unico abito che indossava.
37.
Mi sento a volte preso, non so perché, da un preavviso di morte… un malessere indefinito, che non si materializza in dolore e per questo tende a spiritualizzarsi in un fine, cioè, una stanchezza che richiede un sonno così profondo che il dormire non gli basta – certo è che sento come se, sfinito per la malattia, alla fine aprissi privo di forze e di rimpianti le deboli mani sulla coltre rimboccata. Rifletto, allora, su questa cosa che chiamiamo morte. Non voglio dire il mistero della morte, che non riesco a penetrare, ma la sensazione fisica di cessare di vivere. L’umanità ha paura della morte, ma in modo indefinito; l’uomo normale si batte bene nella prova, l’uomo normale, malato o vecchio, raramente guarda con orrore l’abisso del nulla che egli attribuisce a questo stesso abisso. Tutto ciò è mancanza di immaginazione. Non c’è niente di più errato del ritenere la morte simile al sonno. Perché dovrebbe esserlo se la morte non assomiglia al sonno? L’essenza del sonno è il destarsi da esso, ma dalla morte – suppongo – non ci si desta. E se la morte somiglia al sonno, dovremo avere la nozione che ci si desti da essa. Tuttavia, non è questo ciò che l’uomo normale si figura: si figura per sé la morte come un sonno dal quale non ci si risveglia, il che non vuole dire niente. La morte, l’ho detto, non somiglia al sonno, poiché nel sonno si è vivi e dormienti; non so come si possa ritenere la morte simile a qualche cosa, se non si ha esperienza di essa, o non si ha una cosa cui raffrontarla. A me, quando vedo un morto, la morte sembra una partenza. Il cadavere mi dà l’impressione di un abito abbandonato. Qualcuno se ne è andato e non ha avuto bisogno di portare con sé quell’unico abito che indossava.
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