opera di Ichiro Tsuruta
da “Musica” - Yukio Mishima
(…)
Dopo aver risposto con aria molto fiera, continuò: "Di questo le parlerò dopo con calma. Così sono andata dal medico, il quale fortunatamente mi ha detto che non c'era nessun pericolo e mi ha indirizzata dal dottor R. del reparto di medicina interna. Anche lì dopo vari accertamenti non avevano capito niente e, considerando i vari problemi di cui avevo parlato, mi hanno mandata qui".
Quindi Reiko, senza che le chiedessi nulla, cominciò a parlare di sé e della sua famiglia, sin dal periodo dell'infanzia, e io la lasciai fare. Dal suo racconto venni a sapere quanto segue.
Gli Yumikawa erano un'antica e ricca famiglia della città di Kofu, suo padre era il diciassettesimo discendente della stirpe. Reiko, dopo essersi diplomata al liceo femminile di Kofu, era entrata, realizzando un grande desiderio, all'università femminile S. di Tokyo, dove risiedeva nel collegio delle studentesse. Aveva promesso che dopo la laurea sarebbe ritornata subito nella sua città, ma poiché odiava il fidanzato ufficiale, un cugino di secondo grado che era stato scelto per lei sin da bambina, terminati gli studi si rifiutò ostinatamente di ritornare. Convinse il padre a farla restare ancora a Tokyo con la scusa che desiderava capire un po' meglio come funzionava la società, e così fu assunta come segretaria in un'importante ditta di import-export.
Da allora erano già passati due anni, ma poiché tornare a Kofu avrebbe significato sposare l'odiato fidanzato, stava prolungando la sua permanenza a Tokyo vivendo, come meglio le pareva, da sola in un appartamento. E il padre, fin troppo indulgente, anche se a parole si arrabbiava, non mancava mai di inviarle denaro a sufficienza.
Una situazione abbastanza invidiabile, non mi sembrava ci fosse altro da poter desiderare. Lo stipendio della ditta lo usava per le spese personali, e non solo non mandava denaro ai suoi genitori, ma erano i genitori a provvedere abbondantemente alle sue spese quotidiane.
Pare che il padre fosse convinto che fino a quando le avesse consentito di condurre una vita agiata non avrebbe preso una cattiva strada. A ogni modo all'inizio dell'autunno, Reiko, oltre all'inappetenza e alla nausea di cui mi aveva parlato, aveva cominciato a soffrire anche del tic manifestatosi al nostro primo incontro.
"E’ molto strano. Avviene senza che neanche me ne accorga, il mio Vizio precede la mia mente." Questa era un'osservazione interessante, una prova sufficiente delle facoltà intellettuali della ragazza. Ma mentre diceva questo il tic balenò sulla sua guancia, e poiché Reiko cercava di resistervi mantenendo un sorriso fisso, sembrava che mi strizzasse l'occhio maliziosamente.
L'intensificarsi di un tic dovuto proprio al tentativo di opporvisi è un classico dispetto della volontà isterica, che agisce in senso contrario.
Poi Reiko cominciò a dire una cosa molto strana: "Dottore, perché non sento la musica?" Le chiesi di spiegarmi meglio cosa intendesse dire.
Così mi disse che quando, ad esempio, ascoltava uno sceneggiato radiofonico, sentiva chiaramente i dialoghi e le spiegazioni, ma appena iniziava una musica di sottofondo non sentiva più nulla, come se calasse all'improvviso il buio, e provava un forte senso di disagio.
Allora le domandai cosa accadesse nel caso di un programma di sola musica.
In quel caso, mi spiegò, nell'attimo in cui pensava, "Ah, comincia la musica", per quanto alzasse il volume non sentiva niente, fino a quando non iniziava la presentazione del brano successivo.
In pratica, nell'attimo in cui alla ragazza veniva in mente il concetto di "musica", la musica si spegneva. L'idea della musica spegneva la musica stessa. Era davvero uno strano delirio, decisi quindi di fare subito un esperimento.
Mi feci prestare una radio a transistor dall'infermiera e provai ad andare su e giù sulla scala di sintonia. Una stazione trasmetteva un corso di inglese, e questo Reiko lo sentiva chiaramente. Cercando altri canali, esplose a un tratto della chiassosa musica sudamericana e gli occhi di Reiko furono attraversati da un'ombra di disagio. In quell'attimo, nel suo sguardo si era avvertita una strana inquietudine, come se avesse cercato di evitare un'automobile sbucata all'improvviso in una strada affollata.
Quella non poteva essere la reazione di chi non aveva sentito nulla, pensai subito; avevo la sensazione che nella sua mente lei si chiedesse indecisa, "Ah, che faccio? Dico che la sento o che non la sento?" Ma un attimo dopo ebbi la certezza che la ragazza non sentiva.
Dal suo viso era scomparsa ogni tensione, e adesso era chiaro che i suoi occhi erano sgranati invano verso il silenzio. In quegli occhi spuntarono le lacrime, su cui le pupille limpide sembravano fluttuare...
(…)
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Dopo aver risposto con aria molto fiera, continuò: "Di questo le parlerò dopo con calma. Così sono andata dal medico, il quale fortunatamente mi ha detto che non c'era nessun pericolo e mi ha indirizzata dal dottor R. del reparto di medicina interna. Anche lì dopo vari accertamenti non avevano capito niente e, considerando i vari problemi di cui avevo parlato, mi hanno mandata qui".
Quindi Reiko, senza che le chiedessi nulla, cominciò a parlare di sé e della sua famiglia, sin dal periodo dell'infanzia, e io la lasciai fare. Dal suo racconto venni a sapere quanto segue.
Gli Yumikawa erano un'antica e ricca famiglia della città di Kofu, suo padre era il diciassettesimo discendente della stirpe. Reiko, dopo essersi diplomata al liceo femminile di Kofu, era entrata, realizzando un grande desiderio, all'università femminile S. di Tokyo, dove risiedeva nel collegio delle studentesse. Aveva promesso che dopo la laurea sarebbe ritornata subito nella sua città, ma poiché odiava il fidanzato ufficiale, un cugino di secondo grado che era stato scelto per lei sin da bambina, terminati gli studi si rifiutò ostinatamente di ritornare. Convinse il padre a farla restare ancora a Tokyo con la scusa che desiderava capire un po' meglio come funzionava la società, e così fu assunta come segretaria in un'importante ditta di import-export.
Da allora erano già passati due anni, ma poiché tornare a Kofu avrebbe significato sposare l'odiato fidanzato, stava prolungando la sua permanenza a Tokyo vivendo, come meglio le pareva, da sola in un appartamento. E il padre, fin troppo indulgente, anche se a parole si arrabbiava, non mancava mai di inviarle denaro a sufficienza.
Una situazione abbastanza invidiabile, non mi sembrava ci fosse altro da poter desiderare. Lo stipendio della ditta lo usava per le spese personali, e non solo non mandava denaro ai suoi genitori, ma erano i genitori a provvedere abbondantemente alle sue spese quotidiane.
Pare che il padre fosse convinto che fino a quando le avesse consentito di condurre una vita agiata non avrebbe preso una cattiva strada. A ogni modo all'inizio dell'autunno, Reiko, oltre all'inappetenza e alla nausea di cui mi aveva parlato, aveva cominciato a soffrire anche del tic manifestatosi al nostro primo incontro.
"E’ molto strano. Avviene senza che neanche me ne accorga, il mio Vizio precede la mia mente." Questa era un'osservazione interessante, una prova sufficiente delle facoltà intellettuali della ragazza. Ma mentre diceva questo il tic balenò sulla sua guancia, e poiché Reiko cercava di resistervi mantenendo un sorriso fisso, sembrava che mi strizzasse l'occhio maliziosamente.
L'intensificarsi di un tic dovuto proprio al tentativo di opporvisi è un classico dispetto della volontà isterica, che agisce in senso contrario.
Poi Reiko cominciò a dire una cosa molto strana: "Dottore, perché non sento la musica?" Le chiesi di spiegarmi meglio cosa intendesse dire.
Così mi disse che quando, ad esempio, ascoltava uno sceneggiato radiofonico, sentiva chiaramente i dialoghi e le spiegazioni, ma appena iniziava una musica di sottofondo non sentiva più nulla, come se calasse all'improvviso il buio, e provava un forte senso di disagio.
Allora le domandai cosa accadesse nel caso di un programma di sola musica.
In quel caso, mi spiegò, nell'attimo in cui pensava, "Ah, comincia la musica", per quanto alzasse il volume non sentiva niente, fino a quando non iniziava la presentazione del brano successivo.
In pratica, nell'attimo in cui alla ragazza veniva in mente il concetto di "musica", la musica si spegneva. L'idea della musica spegneva la musica stessa. Era davvero uno strano delirio, decisi quindi di fare subito un esperimento.
Mi feci prestare una radio a transistor dall'infermiera e provai ad andare su e giù sulla scala di sintonia. Una stazione trasmetteva un corso di inglese, e questo Reiko lo sentiva chiaramente. Cercando altri canali, esplose a un tratto della chiassosa musica sudamericana e gli occhi di Reiko furono attraversati da un'ombra di disagio. In quell'attimo, nel suo sguardo si era avvertita una strana inquietudine, come se avesse cercato di evitare un'automobile sbucata all'improvviso in una strada affollata.
Quella non poteva essere la reazione di chi non aveva sentito nulla, pensai subito; avevo la sensazione che nella sua mente lei si chiedesse indecisa, "Ah, che faccio? Dico che la sento o che non la sento?" Ma un attimo dopo ebbi la certezza che la ragazza non sentiva.
Dal suo viso era scomparsa ogni tensione, e adesso era chiaro che i suoi occhi erano sgranati invano verso il silenzio. In quegli occhi spuntarono le lacrime, su cui le pupille limpide sembravano fluttuare...
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