Claude Monet - Paesaggio
da Il libro dell’inquietudine – Fernando Pessoa
40.
Esiste una stanchezza dell’intelligenza astratta, che è la più spaventosa delle stanchezze. Non pesa come la stanchezza del corpo, né inquieta come la stanchezza della conoscenza emotiva. È un peso della coscienza del mondo, un non poter respirare con l’anima. Allora – come se il vento si abbattesse su di esse, come su delle nuvole – tutte le idee in cui abbiamo sentito la vita, tutte le ambizioni e i disegni su cui abbiamo fondato la speranza del nostro domani, si squarciano, si aprono, si allontanano, divenute ceneri di nebbia, stracci di ciò che non è stato ne avrebbe potuto essere. E dietro la sconfitta sorge, pura, la solitudine nera e implacabile del cielo deserto e stellato. Il mistero della vita ci fa soffrire e ci spaventa in molti modi. A volte arriva su di noi come un fantasma informe, e l’anima trema per la peggiore delle paure – quella dell’incarnazione mostruosa del non essere. Talora è dietro noi, visibile soltanto quando non ci voltiamo per vederlo, ed è la verità tutta nel suo profondissimo orrore di non conoscerla. Ma questo orrore che oggi mi annichilisce è meno nobile e più bruciante. È la volontà di non voler pensare, un desiderio di non essere mai stato niente, una disperazione cosciente di tutte le cellule del corpo e dell’anima. È un sentimento improvviso di sentirsi rinchiuso in una cella infinita. Dove pensare di fuggire, se soltanto la cella è tutto? E allora mi assale il desiderio traboccante, assurdo, di una specie di satanismo che ha preceduto Satana, da cui un giorno – un giorno senza tempo e senza sostanza – si trovi un modo di fuggire da Dio, e che il più profondo di noi smetta, non saprei dire come, di far parte dell’essere o del non essere.
40.
Esiste una stanchezza dell’intelligenza astratta, che è la più spaventosa delle stanchezze. Non pesa come la stanchezza del corpo, né inquieta come la stanchezza della conoscenza emotiva. È un peso della coscienza del mondo, un non poter respirare con l’anima. Allora – come se il vento si abbattesse su di esse, come su delle nuvole – tutte le idee in cui abbiamo sentito la vita, tutte le ambizioni e i disegni su cui abbiamo fondato la speranza del nostro domani, si squarciano, si aprono, si allontanano, divenute ceneri di nebbia, stracci di ciò che non è stato ne avrebbe potuto essere. E dietro la sconfitta sorge, pura, la solitudine nera e implacabile del cielo deserto e stellato. Il mistero della vita ci fa soffrire e ci spaventa in molti modi. A volte arriva su di noi come un fantasma informe, e l’anima trema per la peggiore delle paure – quella dell’incarnazione mostruosa del non essere. Talora è dietro noi, visibile soltanto quando non ci voltiamo per vederlo, ed è la verità tutta nel suo profondissimo orrore di non conoscerla. Ma questo orrore che oggi mi annichilisce è meno nobile e più bruciante. È la volontà di non voler pensare, un desiderio di non essere mai stato niente, una disperazione cosciente di tutte le cellule del corpo e dell’anima. È un sentimento improvviso di sentirsi rinchiuso in una cella infinita. Dove pensare di fuggire, se soltanto la cella è tutto? E allora mi assale il desiderio traboccante, assurdo, di una specie di satanismo che ha preceduto Satana, da cui un giorno – un giorno senza tempo e senza sostanza – si trovi un modo di fuggire da Dio, e che il più profondo di noi smetta, non saprei dire come, di far parte dell’essere o del non essere.
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