dipinto di Osamu Obi
da “Avventure della
ragazza cattiva” – Mario Vergas Llosa
(…)
“Di te, mi piace
tutto, - le dicevo. - Ma, più di tutto, quella deliziosa maniera di parlare che
hai”. Era curiosa e originale, per la sua intonazione e per la sua musica, così
diverse da quelle peruviane, e anche per certe espressioni, paroline e frasette
che a noi del quartiere
ci lasciavano
stralunati, cercando di indovinare cosa volessero dire e se in esse vi fosse
nascosta qualche burla. Lily passava la vita dicendo cose a doppio senso,
facendo indovinelli o raccontando barzellette tanto spinte che facevano
arrossire come peperoni le ragazze del quartiere. “Quelle ragazzine cilene,
quelle chilenitas, sono terribili”, sentenziava zia Alberta, togliendosi e
infilandosi gli occhiali con quella sua aria da professoressa, preoccupata che
le due forestiere potessero disintegrare la morale miraflorina.
Ancora non c’erano
palazzi a Miraflores all’inizio degli anni Cinquanta, quartiere di casette a un
solo piano o al massimo due, di giardini con gli immancabili gerani, le
poinciane, gli allori, le bouganvillee, il prato e le terrazze su cui si
arrampicavano il caprifoglio o l’edera, con sedie a dondolo dove gli abitanti
delle case aspettavano la sera spettegolando e annusando il profumo del gelsomino.
In alcuni parchi c’erano ceibe spinose dai fiori rossi o rosa, e i marciapiedi
dritti, puliti, avevano alberelli di suche, di jacaranda, di gelsi e la nota di
colore la davano, quanto i fiori dei giardini, i carrettini gialli dei gelatai di
D’Onofrio, che indossavano come un’uniforme lo spolverino bianco e il berretto
nero, e percorrevano le strade giorno e notte annunciando la loro presenza con
una tromba il cui lento ululare mi faceva l’effetto di un corno barbaro, di una
reminiscenza preistorica. Si sentivano ancora cantare gli uccelli in quel
Miraflores dove le famiglie tagliavano i pini quando le ragazze arrivavano all’età
da marito, perché, se non lo avessero fatto, le poverine sarebbero rimaste
zitelle come mia zia Alberta.
Lily non mi concedeva
mai il suo sì, ma a parte questa formalità era pur vero che per tutto il resto
sembravamo fidanzatini. Ci tenevamo per mano alle matinée del Ritardo Palma,
del Leuro, del Montecarlo e del Colina, e, sebbene non si potesse dire che nel
buio delle platee facessimo cose come altre coppie di più vecchia data - fare
cose era una formula in cui rientravano i baci insignificanti ma anche i
risucchi linguistici e pure i toccamenti sporchi che bisognava confessare al prete
i primi venerdì come peccati mortali -, Lily lasciava che la baciassi, sulle
guance, sul bordo delle orecchie, all’angolo della bocca e,
a volte, per un
secondo, univa le sue labbra alle mie e le scostava con una smorfia
melodrammatica: “No, no, questo proprio no, flaquito”. “Sei ridotto male, sei
proprio perso, flaco, sei viola, flaco, ti stai disfacendo per questa cotta,
flaco”, si burlavano i miei amici del quartiere. Non mi chiamavano mai con il
mio nome – Ricardo Somocurcio -, ma sempre con il soprannome. Non esageravano
affatto: ero innamorato perso di Lily.
(…)
Traduzione di Glauco
Felici
Giulio Einaudi
Editore, 2006
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