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6 agosto 2018

da “Il pranzo di Mosè” - Simonetta Agnello Hornby

da “Il pranzo di Mosè” - Simonetta Agnello Hornby

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“Simonetta, eccola, la guardiola di Mosè!” Ma io l’avevo già avvistata, e il cuore mi batteva forte. Sapevo che dietro la guardiola, il terreno si piegava in colline coperte di ulivi e più giù, a metà collina, nascosta agli occhi degli automobilisti, c’era la nostra casa. Non vedevo l’ora di raggiungerla. Quello era Mosè.
Un posto “nostro”.
Agli inizi dell’Ottocento, Gerlando Giudice, un ricco medico di Favara e trisnonno di Mamma, acquistò da un’Opera Pia un centinaio di ettari di terreno nella Contrada Mosè, che un tempo faceva parte della riserva di caccia di Federico di Svevia, re di Sicilia: un vasto bosco che copriva le dolci colline tra Agrigento e Favara. Di questa era rimasta soltanto un’imponente torre medioevale con cisterna funzionante, circondata da grandi ulivi. Nel 1843 il bisnonno di Mamma, Giuseppe Giudice, costruì il frantoio e, anni dopo, una casa di villeggiatura per la famiglia, che inglobava la torre antica; ricostruì anche la guardiola e nel 1870 concluse i lavori con l’aggiunta della chiesetta. La casa era completa.
Attorno al fabbricato erano già stati piantati mandorli, pistacchi, carrubi, un minuscolo giardino di agrumi, una vigna e un orto, insomma, tutto quello che serviva per cucinare e mangiare bene. Il mio bisnonno vi passò felicemente parte dell’estate, con figli e nipoti, fino alla morte nel 1882, a ottantasette anni. Da allora i Giudice – nostra madre, Elena, è stata l’ultima proprietaria a portare il nome della famiglia – hanno sempre trascorso le vacanze estive a Mosè. Con una penosa eccezione: durante la Seconda guerra mondiale l’esercito dell’Asse requisì la tenuta. I soldati occuparono casa e fattoria e Mosè divenne un accampamento militare. Nell’uliveto furono costruite postazioni in cemento armato per le mitragliatrici e, lungo il crinale che guarda il mare d’Africa, bunker e posti di vedetta. Nel luglio del 1943 Mosè fu il centro di una battaglia sanguinosa, la prima resistenza all’avanzata degli Alleati in Sicilia. Una bomba cadde nella sala da pranzo e distrusse la scala d’ingresso principale, altre devastarono la cantina. Gli Alleati vittoriosi vi si insediarono per un periodo. Quando ebbero conquistato Agrigento, abbandonarono Mosè
lasciando casa e fattoria aperte ai vandali.
La tenuta fu ereditata da Mamma nel 1946. Le piaceva raccontare a Chiara e a me le ragioni di questa attribuzione. Nella divisione delle proprietà del padre, i figli maschi, zio Giovanni e zio Peppino, ebbero le terre di pianura, le migliori, mentre Mosè e Narbone, terre di collina, furono destinate alle femmine, zia Teresa, la sorella maggiore, e Mamma.
Fecero a sorte: a Mamma era toccato Narbone, un feudo di montagna. Nella primavera di
quell’anno erano andati tutti insieme in gita a Mosè. La fattoria attigua alla casa, corredata
di due bagli, piccionaia, mandria e piccola torre di vedetta, era di nuovo funzionante: i Vella, un nucleo di contadini originari di Favara e mezzadri di Mosè, che avevano dovuto lasciare la fattoria e gli animali all’esercito dell’Asse per rifugiarsi in paese, vi erano ritornati dopo l’armistizio.
La fattoria era scampata ai bombardamenti e, lavorando sodo, loro erano riusciti a rimetterla in sesto e a riprendere il lavoro. La casa padronale era in condizioni disastrose. Oltre ai danni causati dalla bomba, era stata saccheggiata: scuri rotti, finestre senza vetri, tubature e pavimenti divelti, mobili bruciati, mura affumicate, carta da parati strappata. Era vuota, tranne la cucina, dove tutta la mobilia era rimasta intatta: forse perché i mobili erano troppo pesanti per essere trasportati o forse, come mi piace pensare, perché anche in guerra si rispetta il posto in cui si prepara il cibo.
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