traduzione di Margherita D’Amico
Manuel me l’aveva
promesso: se avessi accettato certe sue condizioni, mi avrebbe raccontato la
vita di Giovanna di Castiglia e il suo folle amore per il marito Filippo il Bello.
Lui era professore all’Università Complutense, specialista in Storia del Rinascimento
spagnolo; io frequentavo ancora la scuola superiore. Avevo diciassette anni, e
da quando ne avevo tredici ero interna in un collegio di monache a Madrid,
lontana dal mio piccolo paese dell’America Latina. I miei genitori erano morti
in un incidente aereo.
La voce di Manuel
lasciava sempre dentro di me una scia densa, un’onda lunga in cui fluttuavano
volti, mobili, tendaggi, perline di vetro e rituali del tempo perduto.
«Quali condizioni?»
domandai.
«Voglio che tu
costruisca con l’immaginazione quello che ti descriverò, che tu veda te stessa
in quegli scenari, che ti senta per alcune ore Giovanna. All’inizio non ti sarà
facile, ma un mondo fatto di parole può essere reale quanto la luce che ti illumina
le mani in questo momento. È scientificamente provato che il cervello ha la
medesima reazione sia che vediamo una candela accesa con gli occhi aperti sia
che la immaginiamo con gli occhi chiusi. Possiamo vedere con la mente e non
soltanto con i sensi. Nel mondo che evocherò, se accetti la mia proposta, tu
impersonerai Giovanna. Io conosco i fatti, le date, posso situarti in quel
tempo, negli odori, nei colori e nell’ambiente di allora. Ma poiché sono un uomo
e, ancor peggio, uno storico razionale e meticoloso, nella mia narrazione
mancherà - mi manca sempre - la voce interiore. Non posso sentire, per quanto
ci provi, ciò che avrà sentito Giovanna a sedici anni mentre andava in sposa a
Filippo il Bello, sulla nave ammiraglia di un’armata composta da centotrentadue
imbarcazioni.»
«Hai detto che non lo
conosceva.»
«Non lo aveva mai
visto. Quando, accompagnata da cinquemila uomini e duemila dame di corte, sbarcò
nelle Fiandre, il suo promesso sposo non era al porto ad attenderla. Mi è difficile
immaginare che cosa avrà provato, men che meno posso avvicinarmi ai suoi pensieri
intimi nel momento in cui infine incontrò Filippo nel monastero di Lierre e si innamorarono
furiosamente, totalmente e immediatamente tanto che chiesero di sposarsi quella
sera stessa per consumare un matrimonio concordato in base a ragioni di Stato.»
Quante volte Manuel
aveva citato quell’incontro? Forse gli piaceva vedermi arrossire.
Sorrisi per
nascondere il mio disagio. Anche se avevo trascorso gli ultimi anni in convento,
circondata da monache, io quella scena la potevo sentire, per me non era difficile
immaginare ciò che aveva provato Giovanna.
«Vedo che mi capisci.»
Manuel sorrise. «Non riesco a staccarmi dalla figura di quella giovane, una
delle principesse più colte del Rinascimento che, dopo aver ereditato il trono di
Spagna, a ventinove anni fu confinata in un vecchio palazzo in cui morì
quarantasei anni dopo. Era stata educata da Beatrice Galindo, “la Latina”, una
delle filosofe più brillanti del Rinascimento.»
«È triste pensare che
Giovanna sia impazzita di gelosia.»
«Questo è ciò che
dissero, ed è proprio uno dei punti oscuri che potresti aiutarmi a svelare.»
«Non vedo come.»
«Pensando come lei,
mettendoti al suo posto. Voglio che ti lasci inondare la mente da questa
storia. Hai più o meno la sua età, e anche tu hai dovuto lasciare il tuo Paese
e sei rimasta sola molto giovane.»
Un giorno di
settembre del 1963 i miei nonni mi avevano lasciata in un collegio di monache a
Madrid. Nonostante l’edificio di pietra fosse severo e tetro - l’alta facciata senza
finestre, l’imponente portone con l’antico scudo sull’architrave - la sua
sobrietà si accordò perfettamente con il mio stato d’animo di quel momento.
Attraversai l’atrio ricoperto di azulejos sentendo, nel fare ingresso nella sala
di ricevimento, che mi lasciavo alle spalle i rumori di un mondo che non aveva
risentito minimamente della sciagura che di colpo aveva posto fine alla mia
infanzia.
(…)
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