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28 ottobre 2018

da “Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare” - Luis Sepúlveda

da “Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare” - Luis Sepúlveda

Kengah aprì le ali per spiccare il volo, ma l’onda densa fu più rapida e la sommerse completamente. Quando tornò a galla la luce del giorno era scomparsa, e dopo aver scosso il capo con energia capì che la maledizione dei mari le stava oscurando la vista.
Kengah, la gabbiana dalle piume d’argento, tuffò varie volte la testa sott’acqua, sinché qualche filo di luce non raggiunse le sue pupille coperte di petrolio. La macchia vischiosa, la peste nera, le incollava le ali al corpo, così iniziò a muovere le zampe sperando di potersi allontanare rapidamente a nuoto dal centro dell’onda scura.
Con tutti i muscoli tormentati dai crampi per lo sforzo, raggiunse finalmente il limite della macchia di petrolio e sentì il fresco contatto dell’acqua pulita. Quando, a forza di sbattere le palpebre e di tuffare la testa, riuscì a pulirsi gli occhi, guardò il cielo, ma vide solo alcune nuvole che si frapponevano tra il mare e l’immensità della volta celeste. I suoi compagni
dello stormo del Faro della Sabbia Rossa dovevano volare ormai lontano, molto lontano. Era la legge. Anche lei aveva visto altri gabbiani sorpresi dalle mortifere onde nere, e nonostante il desiderio di scendere a offrire loro un aiuto tanto inutile quanto impossibile, si era allontanata, rispettando la legge che proibisce di assistere alla morte dei compagni. Con le ali immobilizzate, incollate ai corpi, i gabbiani erano facile preda dei grandi pesci, o morivano lentamente, asfissiati dal petrolio che penetrando fra le piume tappava loro tutti i pori. Era questa la morte che la aspettava, e desiderò scomparire presto tra le fauci di un grosso pesce.
La macchia nera. La peste nera. Mentre aspettava la fine fatale, Kengah maledisse gli umani.
«Ma non tutti. Non devo essere ingiusta» stridette debolmente.
Spesso, dall’alto, aveva visto come grandi petroliere approfittavano delle giornate di nebbia costiera per andare al largo a lavare le loro cisterne. Rovesciavano in mare migliaia di litri di una sostanza densa e pestilenziale che veniva trascinata via dalle onde. Ma a volte aveva visto anche delle piccole imbarcazioni che si avvicinavano alle petroliere e impedivano loro di svuotare le cisterne. Disgraziatamente quelle barche ornate dai colori
dell’arcobaleno non sempre arrivavano in tempo per impedire l’avvelenamento dei mari. Kengah passò le ore più lunghe della sua vita posata sull’acqua, chiedendosi atterrita se per caso non la aspettava la più terribile delle morti: peggio che essere divorata da un pesce, peggio che patire l’angoscia dell’asfissia, era morire di fame.
Disperata all’idea di una fine lenta si agitò, e con stupore si accorse che il petrolio non le aveva incollato le ali al corpo. Aveva le piume impregnate di quella sostanza densa, ma almeno poteva spiegarle.
«Forse ho ancora una possibilità di uscire da qui, e volando in alto, molto in alto, forse il sole scioglierà il petrolio» stridette Kengah.
Le tornò alla mente una storia, raccontatale da un vecchio gabbiano delle isole Frisoni, che parlava di un umano chiamato Icaro che, per realizzare il sogno del volo, si era costruito delle ali con piume di aquila ed era volato in alto, vicinissimo al sole, tanto che il calore aveva sciolto la cera con cui aveva incollato le piume ed era precipitato.
Kengah batté energicamente le ali, ritirò le zampe, si innalzò di un paio di palmi, e ricadde sulle onde. Prima di tentare ancora si immerse e agitò le ali sott’acqua. Questa volta salì di un metro prima di cadere.
Quel dannato petrolio le incollava le piume della coda, di modo che non riusciva a governare il decollo. Si tuffò ancora una volta e con il becco cercò di tirar via lo strato di sporco che le copriva la coda. Sopportò il dolore delle piume strappate, e finalmente vide la sua parte posteriore un po’ meno lurida.
Al quinto tentativo Kengah riuscì a spiccare il volo.
Batteva le ali con disperazione perché il peso della cappa di petrolio non le permetteva di planare. Un solo attimo di riposo e sarebbe precipitata. Per fortuna era una gabbiana giovane e i suoi muscoli rispondevano adeguatamente.
Guadagnò quota. Senza mai smettere di battere le ali guardò giù e vide la costa profilarsi appena come una linea bianca. Vide anche alcune barche che si muovevano come minuscoli oggetti su un panno blu. Volò ancora più alto, ma il sole non ebbe gli effetti sperati. Forse i suoi raggi emanavano un calore troppo debole, o la cappa di petrolio era troppo spessa.
Kengah capì che le forze non le sarebbero durate ancora a lungo e, cercando un posto per scendere, volò verso l’entroterra, seguendo la serpeggiante linea verde dell’Elba. Il movimento delle sue ali si fece sempre più lento e pesante. Perdeva vigore. Adesso non volava più così in alto.
In un disperato tentativo di riprendere quota chiuse gli occhi e batté le ali con le ultime energie. Non sapeva per quanto tempo era rimasta a occhi chiusi, ma quando li riaprì stava sorvolando un’alta torre ornata da una banderuola d’oro.
«San Michele!» stridette riconoscendo il campanile della chiesa di Amburgo.
Le sue ali si rifiutarono di continuare a volare.

Traduzione di Ilide Carmignani

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