dipinto di Aldo Balding
da “Il figlio maschio” – Giuseppina Torregrossa
In quello spazio risicato, per qualche secondo, si rinchiudeva nella “camera segreta del suo cuore”, faccia a faccia con “terra e cielo, fuoco e aria, sole e luna, tutto ciò che le apparteneva e tutto ciò che non le apparteneva”. Quindi, paga e serena, chiuse l’acqua e fu pronta ad affrontare ogni difficoltà. Una volta asciutta, cercò un vestito che s’intonasse con l’umore di quella mattina. Si sentiva seria, le ci voleva un tailleur. La gonna stretta, sulle sue curve contenute, si modellò con eleganza, peccato che fosse troppo lunga.
Aveva ancora delle bellissime gambe, le piaceva metterle in mostra, ma Vito le aveva intimato di allungare gli orli. Non che fosse geloso, ma «sei una signora» aveva ribadito, e Adalgisa s’era adeguata. Non le piaceva litigare per delle sciocchezze, e poi suo marito nel mondo si orientava meglio di lei. Allacciò i bottoni della giacca, aveva delle spalle così imponenti che assomigliava alla giubba di un generale. Era la moda esagerata di quegli anni, colori assurdi e forme sproporzionate. Non le piaceva molto, ma mica poteva fare la figura della paesanotta. Farsi spazio tra l’altezzosa borghesia palermitana era stato duro, e proprio lei non voleva dare adito a critiche.
Le ragazze irruppero nella sua camera vociando.
«Mamma, noi andiamo!»
«Come sei elegante!»
Anna la riempiva sempre di complimenti. Era una ragazza allegra, carina, e non le piaceva andare a fondo nelle cose, perciò viveva tranquilla, in una zona al confine con la felicità.
Cetti invece era spesso critica. Affondò le dita nelle spalline della giacca e disse: «Sembri Ufo Robot!».
«Si trasforma in un razzo missile, con circuiti di mille valvole, tra le stelle sprinta e vaaa…» cantò Luisa, poi fece un paio di piroette e corse via. A lei la vita palermitana era piaciuta fin dal primo momento, era piena di amici e passava di continuo da una festa a una gita.
Adalgisa le salutò con un bacio e poi si diede un filo di rossetto, il suo viso fresco non aveva bisogno di grossi restauri. Era ancora piacente, non era molto cambiata, aveva però assunto modi di fare severi e asciutti. Colpa del moralismo ipocrita delle sue conoscenze che aveva rintuzzato la sua naturale sensualità. Dopo il matrimonio aveva dovuto abbandonare ogni forma di ambivalenza sfoderando un comportamento di grande equilibrio.
“Io sono di Vito Cavallotto” diceva tutto il suo corpo, anzi sembrava che quella frase ce l’avesse stampata sulla fronte come un marchio di appartenenza. E la sua carnalità, prudentemente celata, la riservava al marito che accoglieva con gioia ogni volta che lui ne avesse voglia. Quel muro che aveva tirato su, anziché contenere la sua femminilità esuberante, l’aveva esaltata, tanto che ogni suo gesto, anche il più banale, come quello di scrivere una fattura, appariva una promessa maliziosa. Indossò il giro di perle e con un’aria altera, che sembrava dire “non toccarmi che mi sciupo”, andò a svegliare la suocera.
In quello spazio risicato, per qualche secondo, si rinchiudeva nella “camera segreta del suo cuore”, faccia a faccia con “terra e cielo, fuoco e aria, sole e luna, tutto ciò che le apparteneva e tutto ciò che non le apparteneva”. Quindi, paga e serena, chiuse l’acqua e fu pronta ad affrontare ogni difficoltà. Una volta asciutta, cercò un vestito che s’intonasse con l’umore di quella mattina. Si sentiva seria, le ci voleva un tailleur. La gonna stretta, sulle sue curve contenute, si modellò con eleganza, peccato che fosse troppo lunga.
Aveva ancora delle bellissime gambe, le piaceva metterle in mostra, ma Vito le aveva intimato di allungare gli orli. Non che fosse geloso, ma «sei una signora» aveva ribadito, e Adalgisa s’era adeguata. Non le piaceva litigare per delle sciocchezze, e poi suo marito nel mondo si orientava meglio di lei. Allacciò i bottoni della giacca, aveva delle spalle così imponenti che assomigliava alla giubba di un generale. Era la moda esagerata di quegli anni, colori assurdi e forme sproporzionate. Non le piaceva molto, ma mica poteva fare la figura della paesanotta. Farsi spazio tra l’altezzosa borghesia palermitana era stato duro, e proprio lei non voleva dare adito a critiche.
Le ragazze irruppero nella sua camera vociando.
«Mamma, noi andiamo!»
«Come sei elegante!»
Anna la riempiva sempre di complimenti. Era una ragazza allegra, carina, e non le piaceva andare a fondo nelle cose, perciò viveva tranquilla, in una zona al confine con la felicità.
Cetti invece era spesso critica. Affondò le dita nelle spalline della giacca e disse: «Sembri Ufo Robot!».
«Si trasforma in un razzo missile, con circuiti di mille valvole, tra le stelle sprinta e vaaa…» cantò Luisa, poi fece un paio di piroette e corse via. A lei la vita palermitana era piaciuta fin dal primo momento, era piena di amici e passava di continuo da una festa a una gita.
Adalgisa le salutò con un bacio e poi si diede un filo di rossetto, il suo viso fresco non aveva bisogno di grossi restauri. Era ancora piacente, non era molto cambiata, aveva però assunto modi di fare severi e asciutti. Colpa del moralismo ipocrita delle sue conoscenze che aveva rintuzzato la sua naturale sensualità. Dopo il matrimonio aveva dovuto abbandonare ogni forma di ambivalenza sfoderando un comportamento di grande equilibrio.
“Io sono di Vito Cavallotto” diceva tutto il suo corpo, anzi sembrava che quella frase ce l’avesse stampata sulla fronte come un marchio di appartenenza. E la sua carnalità, prudentemente celata, la riservava al marito che accoglieva con gioia ogni volta che lui ne avesse voglia. Quel muro che aveva tirato su, anziché contenere la sua femminilità esuberante, l’aveva esaltata, tanto che ogni suo gesto, anche il più banale, come quello di scrivere una fattura, appariva una promessa maliziosa. Indossò il giro di perle e con un’aria altera, che sembrava dire “non toccarmi che mi sciupo”, andò a svegliare la suocera.
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