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30 dicembre 2018

Bihlana Kavi – Chaurapanchasika

Georgy Kurasov - Balletto
Bihlana Kavi – Chaurapanchasika

32
Anche ora,
notte e giorno il mio cuore è tormentato
dal pensiero che non vedrò più la mia amata
mostrare davanti a me ad ogni passo
la sua leggiadra figura di luna piena,
fiera delle ferite che ella procurò all’orgoglio
dell’Amore, irritato ch’ella superi in bellezza
il viso stesso della Voluttà, sua sposa.

Traduzione di Paolo Statuti
Bihlana Kavi. Chaurapanchasika il canto del ladro d’Amore a cura di Paolo Statuti
Poesia n. 320, novembre 2016. Crocetti Editore

Le città invisibili – Italo Calvino

Renato Guttuso - Tetti di Palermo
Le città invisibili – Italo Calvino

Le città sottili. 3.
Se Armilla sia così perché incompiuta o perché demolita, se ci sia dietro un incantesimo o solo un capriccio, io lo ignoro. Fatto sta che non ha muri, né soffitti, né pavimenti: non ha nulla che la faccia sembrare una città, eccetto le tubature dell'acqua, che salgono verticali dove dovrebbero esserci le case e si diramano dove dovrebbero esserci i piani: una foresta di tubi che finiscono in rubinetti, docce, sifoni, troppopieni. Contro il cielo biancheggia qualche lavabo o vasca da bagno o altra maiolica, come frutti tardivi rimasti appesi ai rami. Si direbbe che gli idraulici abbiano compiuto il loro lavoro e se ne siano andati prima dell'arrivo dei muratori; oppure che i loro impianti, indistruttibili, abbiano resistito a una catastrofe, terremoto o corrosione di termiti.
Abbandonata prima o dopo esser stata abitata, Armilla non può dirsi deserta. A qualsiasi ora, alzando gli occhi tra le tubature, non è raro scorgere una o molte giovani donne, snelle, non alte di statura, che si crogiolano nelle vasche da bagno, che si inarcano sotto le docce sospese nel vuoto, che fanno abluzioni, o che si pettinano i lunghi capelli allo specchio. Nel sole brillano i fili d'acqua sventagliati dalle docce, i getti dei rubinetti, gli zampilli, gli schizzi, la schiuma delle spugne.
La spiegazione a cui sono arrivato è questa: dei corsi d'acqua incanalati nelle tubature d'Armilla sono rimaste padrone ninfe e naiadi. Abituate a risalire le vene sotterranee, è stato loro facile inoltrarsi nel nuovo regno acquatico, sgorgare da fonti moltiplicate, trovare nuovi specchi, nuovi giochi, nuovi modi di godere dell'acqua. Può darsi che la loro invasione abbia scacciato gli uomini, o può darsi che Armilla sia stata costruita dagli uomini come un dono votivo per ingraziarsi le ninfe offese per la manomissione delle acque. Comunque, adesso sembrano contente, queste donnine: al mattino si sentono cantare

Anno nuovo – Gianni Rodari

dipinto di Aldo Balding
Anno nuovo – Gianni Rodari

“Indovinami, Indovino,
tu che leggi nel destino:
l’anno nuovo come sarà?
Bello, brutto o metà e metà?”.
“Trovo stampato nei miei libroni
che avrà di certo quattro stagioni,
dodici mesi, ciascuno al suo posto,
un Carnevale e un Ferragosto
e il giorno dopo del lunedì
sarà sempre un martedì.
Di più per ora scritto non trovo
nel destino dell’anno nuovo:
per il resto anche quest’anno
sarà come gli uomini lo faranno!”..

17 dicembre 2018

Da “Prima luce”, 14 – Derek Walcott

dipinto di Kazimir Malevich
Da “Prima luce”, 14 – Derek Walcott

Mai abituarsi a questo; le piumate ondeggianti casuarine,
la luce silenziosa del mattino su steli d’erba abbagliante,
gli Ave fragorosi dell’oceano, le lance bianche delle marine,
l’onda che scorre il suo rosario; saluta l’airone e il gabbiano
pieni di grazia, perché ormai è tutto quello che devi fare alla tua età,
e la sua estinzione imminente come luce sull’argilla
al tramonto, e il tuo dono che svanisce da questa pagina;
la tua anima ha percorso il solo orizzonte come una lumaca tranquilla,
l’infinità alle spalle, l’infinità davanti,
e l’unica cosa che conosceva e voleva era quest’arte –
che ne sapeva della morte? Solo quello che aveva letto,
che era come una fiamma soffiata via da una lanterna abbassata,
una notte, ma senza stelle, il formicolio dei pianeti,
luci come un vasto porto, o oblio che divora;
mai abituarsi a questo, la luna enorme in queste notti
tempestate che facevano vacillare il cuore; e il leone
del promontorio, che si muove. Ecco perché sei finito
a lodare le oscillazioni piumate delle casuarine
e quei fremiti di ringraziamento così spesso discesi,
gli steli dell’erba barbuta nella luce della sera,
le lance che svaniscono, poi le luci delle marine,
i panfili che studiano i loro riflessi in uno specchio nero.

da Derek Walcott, Nelle vene del mare, a cura di Matteo Campagnoli
Corriere delle Sera - Un secolo di poesia, a cura di Nicola Crocetti

da "Senilità" - Italo Svevo

da "Senilità" - Italo Svevo

Il Balli aveva riso troppo spesso dell'amore di Emilio per non credere ora nella sua perfetta guarigione. Per di più, da qualche giorno, egli stesso aveva il più vivo desiderio di rivedere Angiolina. Aveva immaginato una figura su quei tratti e con quei vestiti. Lo raccontò ad Emilio il quale gli promise che con le prime parole che avrebbe rivolte alla fanciulla, l'avrebbe pregata di posare per il Balli. Non v'era da dubitare della sua guarigione. Ormai egli non era neppur geloso del Balli.
Parve poi che il Balli pensasse ad Angiolina non meno di Emilio stesso. Aveva dovuto distruggere un bozzetto su cui aveva spesi sei mesi di lavoro. Anch'egli era in un periodo d'esaurimento e non ritrovava in sé altra idea che quella nata la prima sera in cui Emilio gli aveva fatto conoscere Angiolina. Una sera, lasciando Emilio, gli chiese:
- Tu non ti sei ancora riavvicinato? - Non voleva essere lui a riunirli, ma voleva sapere se Emilio non si fosse rappattumato con Angiolina a sua insaputa. Sarebbe stato un tradimento!
La calma d'Emilio era aumentata ancora. Tutti gli permettevano di fare quello ch'egli voleva ed egli in fondo non voleva niente. Proprio niente. Avrebbe cercato di rivedere Angiolina perché voleva provarsi a parlare e pensare con calore. Doveva venirgli dal di fuori il calore ch'egli non aveva trovato in sé, e sperava di vivere il romanzo che non sapeva scrivere.
La sola inerzia gl'impedì d'andare a cercare la fanciulla. Gli sarebbe piaciuto che altri si fosse incaricato di riunirli, e pensò perfino che avrebbe potuto invitare il Balli a farlo.
Tutto infatti sarebbe stato più facile e più semplice se il Balli si fosse procurato da solo la modella, e gliel'avesse poi consegnata quale amante. Ci avrebbe pensato. Esitava soltanto perché non voleva concedere al Balli una parte importante nel proprio destino.
Importante? Oh, Angiolina rimaneva sempre una persona molto importante per lui. In proporzione al resto se non altro. Tutto era tanto insignificante, ch'ella tutto dominava. Ci pensava continuamente come un vecchio alla propria giovinezza Come era stato giovane
quella notte in cui avrebbe dovuto uccidere per tranquillarsi! Se avesse scritto invece di arrovellarsi prima sulla via e poi altrettanto affannosamente nel letto solitario, avrebbe certo trovata la via all'arte che più tardi aveva cercata invano. Ma tutto era passato per sempre. Angiolina viveva, ma non poteva più dargli la giovinezza.
Una sera, accanto al Giardino Pubblico, la vide camminare dinanzi a sé. La riconobbe al noto passo. Ella teneva sollevate le gonne per preservarle dalla fanghiglia, e, alla luce di un gramo fanale, egli vide rilucere le scarpe nere di Angiolina. Ne fu subito turbato.
Ricordò che al culmine della sua angoscia amorosa, egli aveva pensato che il possesso di quella donna gli avrebbe data la guarigione. Ora invece pensò:
- Mi animerebbe!
- Buona sera, signorina - disse con quanta calma poté trovare nell'affanno del desiderio che lo colse dinanzi a quella faccia da bambino roseo, con gli occhi grandi dai contorni precisi, che parevano tagliati allora allora.
Ella si fermò, afferrò la mano che le era stata offerta e rispose lieta e serena al saluto:
- Come sta? E tanto che non ci vediamo.

da "Cosmopolis" - Don Delillo

da "Cosmopolis" - Don Delillo
Ora il sonno lo abbandonava più spesso, non una o due bensì quattro, cinque volte la settimana. Che cosa faceva in quei momenti ? Non passeggiava a lungo dentro gli arabeschi dell'alba. Non aveva un amico tanto intimo da sopportare il tormento di una telefonata. Cosa dirgli ? Era una questione di silenzi, non di parole.
Cercava di leggere fino ad addormentarsi, ma riusciva solo a sentirsi più sveglio. Leggeva scienza e poesia. Gli piacevano le poesie scarne collocate minuziosamente nello spazio bianco, file di tratti alfabetici impressi a fuoco nella carta. Le poesie lo rendevano cosciente del proprio respiro.
L'essenzialità della poesia gli rivelava in un attimo cose che normalmente non notava. Questa era la sfumatura di ogni poesia, almeno per lui, di notte, in quelle lunghe settimane, un respiro dopo l'altro, nella stanza ruotante in cima all'appartamento a tre piani.
Una notte cercò di dormire in piedi, nella sua cella di meditazione, ma non ci riuscì, non era un vero adepto, non era un monaco. Aggirò il sonno e si arrotondò in posizione di equilibrio, una calma senza luna in cui ogni forza veniva bilanciata da un'altra. Fu un sollievo brevissimo, una piccola pausa nell'agitarsi di identità irrequiete. Non c'era risposta alla domanda.
Aveva provato sedativi e ipnotici, ma lo rendevano dipendente, lo precipitavano dentro strette spirali interiori. Ogni sua azione era sintetica, ossessionata dal proprio fantasma. Anche il più pallido pensiero recava un'ombra ansiosa. Cosa faceva?
Non consultava un analista impassibile nella sedia di cuoio. Freud è finito, adesso tocca a
Einstein. Stava leggendo la Teoria Speciale quella notte, in inglese e tedesco, ma mise da parte il libro, infine, e giacque completamente immobile, sforzandosi di pronunciare la parola che avrebbe spento le luci. Nulla esisteva intorno a lui. C'era soltanto il rumore nella
sua testa, la mente nel tempo.
Sarebbe morto ma non sarebbe finito. Il mondo sarebbe finito. Era davanti alla finestra e vedeva sorgere il grande giorno. Lo sguardo attraversava ponti, stretti e baie e si spingeva oltre i quartieri e i lindi sobborghi al dentifricio fino a estensioni di terra e cielo che si potevano definire solo profonda distanza. Non sapeva cosa voleva.
Era ancora buio giù sul fiume, semibuio, e vapori cinerei ondeggiavano sopra le ciminiere lungo la riva opposta. Pensò che le puttane avessero abbandonato gli angoli rischiarati dai lampioni, ormai, sculettando come anatre, mentre altri arcaici commerci si mettevano in moto, i camion degli ortaggi uscivano dai mercati, i camion dei giornali dalle banchine di carico. Che i furgoni del pane stessero attraversando la città e qualche sporadica macchina uscita dalla bolgia serpeggiasse lungo le avenue, pompando suoni violenti dalle casse dello stereo.

da "Danza delle ombre felici" - Alice Munro

da "Danza delle ombre felici" - Alice Munro

L’altra donna dell’Esercito della Salvezza, che era più anziana e aveva la pelle unta e giallognola e una voce quasi maschile, diceva: Nel giardino del paradiso i bambini sbocciano come fiori. Dio avrà avuto bisogno di un altro fiore, perciò si è preso il tuo bambino. Dovresti ringraziare il cielo, sorella, ed essere contenta.
Le altre le ascoltavano imbarazzate; a quelle parole sulle loro facce si dipingeva un disagio puerile e solenne. Si davano da fare a servire il tè e a disporre sul tavolo le crostate, i panfrutti e le focacce che la gente aveva mandato o che avevano preparato personalmente.
Nessuno toccava cibo perché Leona si rifiutava di mangiare. Molte delle presenti piangevano, ma non le due dell’Esercito della Salvezza. Allie McGee piangeva. Era una donna robusta, dal volto placido e il seno prosperoso; non aveva figli. Leona raccolse le ginocchia sotto la trapunta e prese a ondeggiare mentre piangeva e ciondolava avanti e indietro la testa (mostrando, come alcune notarono con un senso di vergogna, le righe di sporco nel collo). A un certo punto si acquietò e, in tono quasi sorpreso, disse: L’ho allattato fino a dieci mesi. Era così buono, non ci s’accorgeva di averlo in casa. L’ho sempre detto che era il pià buono dei miei bambini.
Nella cucina buia e surriscaldata la donna percepì la dignità del dolore nelle loro carni di madri; restavano umili di fronte a quella Leona, sporca, sgradita e disperata.
Entrando, gli uomini – il padre, un cugino, un vicino di casa con il carico di legna o con la timidissima richiesta di qualcosa da mangiare – si rendevano subito conto di essere impietosamente esclusi. Uscivano e riferivano agli altri, Eh, si, non hanno ancora finito. E il padre, che intanto si stava un po’ ubriacando, diventava aggressivo perché sentiva che ci si aspettava qualcosa ma che lui non era all’altezza, e non era giusto, e così disse, Sì, possono anche cavarsi gli occhi a furia di piangere, tanto a Benny non serve.
George e Irene stavano giocando a ritagliare figurine dal catalogo. Avevano una famiglia di carta, madre, padre e figli, e gli ritagliavano i vestiti. Patricia li osservava e disse, Ma si può sapere come ritagliate, bambini? Lasciate il bordo bianco tutto attorno! Come pensate di farli stare su, quei vestiti, se non avete nemmeno fatto le linguette. Prese le forbici e cominciò a tagliare di fino, senza bordini bianchi sui margini; teneva il faccino pallido e sveglio piegato da una parte e le labbra serrate. Faceva le cose come un adulto, non tanto
così, per fare. Non si atteggiava a cantante, anche se da grande quello sarebbe stato il suo mestiere, magari nel cinema, oppure alla radio. Adorava sfogliare le riviste di cinema o quelle piene di foto di vestiti e di stanze arredate; le piaceva guardare nelle finestre di certe case del centro.
Benny cercava di arrampicarsi sul divano. Afferrò il catalogo e Irene lo colpì sulla mano. Lui si mise a frignare. Patricia lo prese in braccio con fare efficiente e lo portò alla finestra. Lo sistemò su una poltrona rivolta all’esterno e intanto diceva, Guarda, Benny, bau-bau, c’è il baubau. Era il cane di Mundy che si era alzato con una scrollatina e si era incamminato su per la strada. Bau-bau, ripeté Benny incuriosito, appiccicando le manine piatte sul vetro e sporgendosi per vedere dove andava il cane. Benny aveva diciotto mesi e le uniche due parole che sapeva dire erano bau-bau e Bram. Bram era l’arrotino che ogni tanto veniva nella via; il suo nome vero era Brandon. Benny se lo ricordava e gli correva incontro quando lo vedeva. Altri bambini a soli tredici o quattordici mesi dicevano più parole di Benny e sapevano fare più cose, tipo salutare e battere le mani, e poi erano quasi tutti più carini, da vedere. Benny era lungo, sottile e ossuto e di faccia somigliava al
padre, pallido, vacuo e inespressivo; gli ci mancava solo quel lurido cappellino con la visiera! In compenso era buono, se ne stava per ore a fissare fuori dalla finestra dicendo Bau-bau, bau-bau, ora in tono interrogativo ora con la cantilena, accarezzando i vetri con le mani. Lungo com’era, gli piaceva farsi prendere in braccio come i bambini piccoli; nel lettino guardava in su e sorrideva tra il timido e l’impaurito. Patricia sapeva che Benny era stupido; lei detestava le cose stupide. Benny era l’unica cosa stupida che non detestasse. Gli asciugava il naso con fare pratico e frettoloso, cercava di insegnargli a parlare, di fargli ripetere le parole; gli metteva la faccia vicina vicina e diceva, nervosa, Ciao, Benny, cia-o, e lui la guardava sorridendo in quel suo modo timoroso e tardo. Questo le procurava un senso di sfinita tristezza che la faceva desistere, per tornare a sfogliare una rivista di cinema.

Traduzione di Susanna Basso

da "Il ladro di merendine" - Andrea Camilleri

da "Il ladro di merendine" - Andrea Camilleri
La porta si spalancò con tale violenza che il commissario fece un salto dalla seggia. Apparve Catarella agitatissimo.
«Domando pirdonanza per la botta, ma la porta mi scappò».
«Se trasi un’altra volta così, ti sparo. Che c’è?».
«C’è che tilifonarono ora ora che c’è uno che si trova dintra un ascensori».
Il calamaio, in bronzo finemente lavorato, mancò la fronte di Catarella, ma il botto che fece contro il legno della porta parse un cannonata. Catarella si rannicchiò, le braccia a proteggersi la testa. Montalbano principiò a pigliare a calci la scrivania. Dintra la càmmara si precipitò Fazio, la mano sulla fondina aperta.
«Che fu? Che successe?».
«Fatti spiegare da questo stronzo cos’è questa storia di uno chiuso in un ascensore. Che si rivolgano ai pompieri. Però portatelo di là, io non lo voglio sentire parlare».
Fazio tornò in un biz.
«Un morto ammazzato dentro un ascensore» fece rapido, essenziale, a scanso di qualche altra tiratina di calamaio.
«Cosentino Giuseppe, guardia giurata» si presentò l’omo vicino al cancello spalancato dell’ascensore. «Trovai io il pòviro signor Lapecora».
«Come mai non c’è nessuno a curiosare?» si meravigliò Fazio.
«Ho rimandato tutti a casa loro. A mia qua m’ubbidiscono. Abito al sesto piano» fece orgogliosa la guardia aggiustandosi la giacca della divisa.
Montalbano si spiò cosa ne sarebbe stato del potere di Giuseppe Cosentino se avesse abitato nello scantinato.
Il defunto signor Lapecora era assittato sul pavimento dell’ascensore, le spalle appoggiate alla parete di fondo. Vicino alla mano destra c’era una bottiglia di Corvo bianco, ancora tappata con la stagnola. Allato alla mano mancina, un cappello grigio chiaro. Il fu signor Lapecora, vestito di tutto punto cravatta compresa, era un sessantino distinto, con gli occhi aperti e lo sguardo stupito, forse per il fatto d’essersi pisciato addosso. Montalbano si chinò, con la punta di un dito sfiorò la macchia scura in mezzo alle gambe del morto: non era piscio, ma sangue. L’ascensore era del tipo di quelli incassati che scorrevano dentro il muro, impossibile vedere le spalle del morto per capire se l’avevano ammazzato di lama o d’arma da foco. Aspirò profondamente, non sentì odore di polvere da sparo, capace che era svaporato.
Doveva avvertire il medico legale.
«Secondo te, il dottor Pasquano è ancora al porto o è tornato a Montelusa?» spiò a Fazio.
«Dev’essere ancora al porto».
«Vallo a chiamare. E se ci sono Jacomuzzi e la banda degli scientifici dillo macari a loro di venire».
Fazio se ne niscì di corsa. Montalbano si rivolse alla guardia giurata la quale, sentendosi interpellare, si mise rispettosamente sull’attenti.
«Riposo» fece stancamente Montalbano.
Il commissario apprese che il palazzo era di sei piani, che c’erano tre appartamenti per piano, tutti abitati.
«Io abito al sesto piano, che è l’ultimo» ci tenne a ribadire Cosentino Giuseppe.
«Era maritato il signor Lapecora?».
«Sissignore. Con Palmisano Antonietta».
«Anche la vedova ha rimandato a casa?».
«Nossignore. La vedova ancora non lo sa d’essere vedova. È partita stamattina presto per andare a trovare sua sorella a Fiacca, datosi che questa sorella non sta tanto bene di salute. Pigliò la corriera delle sei e mezzo».
«Mi scusi, ma lei come le sa tutte queste cose?».
Il sesto piano gli dava macari questo potere, che tutti dovevano dargli conto e ragione di quello che facevano?
«Perché la signora Palmisano Lapecora» spiegò la guardia «Io disse aieri a sira alla mia signora, datosi che le due fìmmine si parlano».
«Hanno figli?».
«Uno. È medico. Ma campa lontano da Vigàta».
«Che mestiere faceva?».
«Il commerciante. Ha lo scagno in Salita Granet numero 28. Ma negli ultimi anni ci andava solamente tre volte la simana, il lunedì, il mercoledì e il venerdì, datosi che gli era passata la gana di travagliare. Aveva messo qualche soldo da parte, non doveva dipendere da nisciuno».
«Lei è una miniera d’oro, signor Cosentino».
La guardia giurata scattò nuovamente nella posizione d’attenti.
In quel momento arrivò una donna sulla cinquantina, le gambe parevano tronchi d’albero. Aveva le mani cariche di sacchetti di plastica stracolmi. «La spisa feci!» proclamò taliando torva il commissario e la guardia giurata.
«Me ne compiaccio» fece Montalbano.
«E io no, vabbeni? Pirchì ora mi devo fari sei piani di scale a piedi. Quanno ve lo portate il morto?».
E fulminati ancora una volta i due, principiò la faticosa salita. Soffiava dalle nasche come un toro infuriato.
«Quella è una fìmmina terribile, signor commissario. Si chiama Pinna Gaetana. Abita nell’appartamento allato al mio e non passa giorno che non attacca lite con la mia signora la quale, datosi che è una vera signora, non ci dà soddisfazione e quella piglia e si mette a fare più catùnio, soprattutto quando devo rifarmi del sonno perso in servizio».

da "Ho sposato un comunista" - Philip Roth

da "Ho sposato un comunista" - Philip Roth
- L’odio per gli ebrei, questo disprezzo che aveva per gli ebrei, - dissi a Murray. - Eppure sposò Ira, sposò Freedman prima di lui…
Era la nostra seconda seduta. Prima di cena eravamo stati sulla veranda che dava sullo stagno e, mentre sorbivamo i nostri martini, Murray mi aveva parlato delle lezioni del sorpreso dalla sua energia mentale, né dal suo entusiasmo per il tema di trecento parole - discutete, dalla prospettiva di una vita, una frase qualsiasi del più famoso soliloquio di Amleto - che il professore aveva assegnato ai suoi anziani studenti. Ma che un uomo così prossimo all’oblio dovesse fare il compito per il giorno dopo, educandosi a una vita che era quasi arrivata alla fine (che l’enigma continuasse a sconcertarlo, che il chiarimento restasse, per lui, un bisogno vitale), questa fu, per me, qualcosa di più che una sorpresa: fui assalito da un senso di colpa, un senso di colpa che sfiorava la vergogna, per il fatto di vivere appartato e di tenere ogni cosa a una così ragguardevole distanza. Ma poi anche il senso di colpa svanì. Non volevo creare altri problemi.
Grigliai un pollo sul barbecue e consumammo la cena fuori sulla veranda. Erano le otto passate da un pezzo quando finimmo, ma era appena la seconda settimana di luglio e, anche se quel mattino, quando ero andato a ritirare la posta, la direttrice dell’ufficio postale mi aveva informato che quel mese avremmo perso quarantanove minuti di sole (e che, se non fosse piovuto al più presto, avremmo tutti dovuto andare a rifornirci di marmellate di more e di lamponi; e che il numero dei morti in incidenti stradali nella zona si era quadruplicato rispetto all’anno prima; e che c’era stato un altro avvistamento, vicino alla mangiatoia per gli uccelli ai margini del bosco, del grosso orso nero del posto), la fine di quella giornata era ancora lontana. La notte era nascosta dietro un cielo chiaro che sembrava proclamare la sua stabilità. Vita senza fine e senza turbamenti.
- Era ebrea? Si, - disse Murray, - un’ebrea patologicamente imbarazzata.
Niente di superficiale in quell’imbarazzo. Imbarazzata perché aveva l’aria di un’ebrea (e la forma del viso di Eve Frame era sottilmente ebraica, con tutte le sfumature fisionomiche della Rebecca di Ivanhoe di Walter Scott), imbarazzata perché anche sua figlia aveva l’aria di un’ebrea. Quando seppe che parlavo spagnolo, mi disse: «Tutti credono che Sylphid sia spagnola.
Quando siamo andati in Spagna, tutti la prendevano per una del posto». Era troppo patetico anche solo per metterlo in dubbio. Tanto, a chi poteva interessare? A Ira no di certo. A Ira non importava di sicuro. Ira era politicamente contrario. Non poteva sopportare nessuna religione. Per Pasqua, Doris aveva l’abitudine di celebrare la festa di Seder con tutta la famiglia, e Ira girava al largo. Superstizioni tribali.
- Io credo che la prima volta che incontrò Eve Frame, Ira fu così affascinato, da lei, da tutto (era appena arrivato a New York, aveva appena cominciato a lavorare in Liberi e audaci, e le faceva da cavaliere nell’American Radio Theater), che il fatto che lei fosse o non fosse ebrea non saltò mai fuori, secondo me. Cosa cambiava, per lui? Ma l’antisemitismo?
Questo sì che cambiava le cose. Anni dopo mi spiegò come, ogni volta che lui diceva la parola «ebreo» in pubblico, lei cercasse di fargli abbassare la voce.
Prendevano l’ascensore in un palazzo dopo essere andati a trovare qualcuno in qualche posto, e c’era una donna con un bebè in braccio o un bebè in carrozzina, e Ira manco li notava, ma quando uscivano in strada Eve diceva: «Che bambino orrendo!» Ira non riusciva a capire cosa la rodesse finché non si rese conto che il bambino orrendo era sempre il figlio di una donna che Eve trovava volgare e somigliante a un’ebrea.

La blusa del bellimbusto - Vladimir Majakovskij

La blusa del bellimbusto - Vladimir Majakovskij

Io mi cucirò neri calzoni
del velluto della mia voce.
E una gialla blusa di tre tese di tramonto.
Per i Nevskij de mondo, per le sue strisce levigate
andrò girellando col passo di Don Giovanni e di bellimbusto.

Gridi pure la terra rammollita nella quiete:
"Tu vieni a violentare le verdi primavere!"
Sfiderò il sole con un sogghigno arrogante:
"Sul liscio asfalto mi piace biascicar parole!"

Sarà forse perchè il cielo è azzurro
e la terra mia amante in questa nettezza festiva,
che io vi dono dei versi allegri come ninnoli,
aguzzi e necessari come stuzzicadenti.

Donne che amate la mia carne e tu, ragazza
che mi guardi come un fratello,
coprite me, poeta, di sorrisi:
li cucirò come fiori sulla mia blusa di bellimbusto.

1914

da "Post Office" - Charles Bukowski

da "Post Office" - Charles Bukowski
Cominciò per sbaglio.
Si era sotto Natale ed ero venuto a sapere dall'ubriacone che stava un po' più su, sulla collina, e che a Natale ci provava sempre, che avrebbero assunto più o meno chiunque, e così ci andai, e prima che potessi rendermi conto di quello che stava succedendo ero lì con la sacca di cuoio sulle spalle a girare tutto il giorno a piedi in lungo e in largo. Che lavoro, pensai. Facile! Leggero! Ti davano solo un paio di isolati e se finivi prima il postino fisso ti dava un altro isolato, oppure tornavi in ufficio ed era il capo a dartene un altro, ma tu te la prendevi comoda e dovevi solo infilare tutti quei cartoncini di auguri nelle cassette.
Fu più o meno al secondo giorno come postino natalizio straordinario che arrivò questo donnone che cominciò a venire in giro con me a consegnare le lettere. Dico donnone perché era grossa, nel senso che aveva il culo grosso e le tette grosse ed era grossa in tutti i punti giusti. Sembrava un po' matta ma io continuavo a guardarle le tette e il culo e il resto e mi andava bene così.
Parlava e parlava e parlava. Poi venne fuori. Suo marito lavorava su un'isola, lontano, e lei si sentiva sola, capite, e viveva in una casetta laterale tutta sola.
"Quale casetta?" chiesi.
Lei scrisse l'indirizzo su un pezzo di carta.
"Anch'io mi sento solo," dissi, "stasera vengo da te a fare quattro chiacchiere."
Io avevo una donna, abitavamo insieme, ma lei non c'era quasi mai, era sempre da qualche altra parte, e anch'io mi sentivo molto solo. Soprattutto con quel culone che mi camminava a fianco.
"Va bene," disse lei, "ci vediamo stasera."
Non era male, davvero, era una bella scopata, ma come tutte le scopate dopo la terza o la quarta notte cominciai a perdere interesse e non ci tornai.
Ma non potevo fare a meno di pensare, Dio mio, questi postini, non fanno altro che infilare le loro lettere nelle cassette e farsi scopare. Questo è il lavoro che fa per me, oh, sì sì sì.

da "La donna della domenica" - Fruttero & Lucentini

da "La donna della domenica" - Fruttero & Lucentini
Il martedì di giugno in cui fu assassinato, l’architetto Garrone guardò l’ora molte volte. Aveva cominciato aprendo gli occhi nell’oscurità fonda della sua camera, dove la finestra ben tappata non lasciava filtrare il minimo raggio. Mentra la sua mano maldestra per l’impazienza, risaliva lungo le anse del cordoncino cercando l’interruttore, l’architetto era stato preso dalla paura irragionevole che fosse tardissimo, che l’ora della telefonata fosse già passata. Ma non erano ancora le nove, aveva visto con stupore; per lui che di solito dormiva fino alle dieci e oltre, era un chiaro sintomo di nervosismo, di apprensione.”

da "Le città invisibili" - Italo Calvino

da "Le città invisibili" - Italo Calvino
Tamara
L’uomo cammina per giornate tra gli alberi e le pietre. Raramente l’occhio si ferma su una cosa, ed è quando l’ha riconosciuta per il segno d’un’altra cosa: un’impronta sulla sabbia indica il passaggio della tigre, un pantano annuncia una vena d’acqua, il fiore dell’ibisco la fine dell’inferno. Tutto il resto è muto e intercambiabile; alberi e pietre sono soltanto ciò che sono. Finalmente il viaggio conduce alla città di Tamara. Ci si addentra per vie fitte d’insegne che sporgono dai muri. L’occhio non vede cose ma figure di cose che significano altre cose: la tenaglia indica la casa del cavadenti, il boccale la taverna, le alabarde il corpo di guardia, la stadera l’erbivendola. Statue e scudi rappresentano leoni delfini torri stelle: segno che qualcosa – chissà cosa – ha per segno un leone o delfino o torre o stella. Altri segnali avvertono di ciò che in un luogo è proibito – entrare nel vicolo con i carretti, orinare dietro l’edicola, pescare con la canna dal ponte – e di ciò è lecito – abbeverare le zebre, giocare a bocce, bruciare i cadaveri dei parenti. Dalla porta dei templi si vedono le statue degli dei, raffigurati ognuno coi suoi attributi: la cornucopia, la clessidra, la medusa, per cui il fedele può riconoscerli e rivolgere loro le preghiere giuste. Se un edificio non porta nessuna insegna o figura, la sua stessa forma e il posto che occupa nell’ordine della città bastano a indicarne la funzione: la reggia, la prigione, la zecca, la scuola pitagorica, il bordello. Anche le mercanzie che i venditori mettono in mostra sui banchi valgono non per se stesse ma come segni d’altre cose: la benda ricamata per la fronte vuol dire eleganza, la portantina dorata potere, i volumi di Averroè sapienza, il monile per la caviglia voluttà. Lo sguardo percorre le vie come pagine scritte: la città dice tutto quello che devi pensare, ti fa ripetere il suo discorso, e mentre credi di visitare Tamara non fai che registrare i nomi con cui essa definisce se stessa e tutte le sue parti.
Come veramente sia la città sotto questo fitto involucro di segni, cosa contenga o nasconda, l’uomo esce da Tamara senza averlo saputo. Fuori s’estende la terra vuota fino all’orizzonte, s’apre il cielo dove corrono le nuvole. Nella forma che il caso e il vento dànno alle nuvole l’uomo è già intento a riconoscere figure: un veliero, una mano, un elefante…

da "Eva Luna racconta" - Isabel Allende

da "Eva Luna racconta" - Isabel Allende
Nella valle del cataclisma il terzo giorno iniziò con una pallida luce tra i nuvoloni. Il Presidente della Repubblica giunse nella zona e apparve in tenuta da campo per confermare che era la peggior disgrazia del secolo, il paese era in lutto, le nazioni sorelle avevano offerto aiuto, si ordinava lo stato d’assedio, le Forze Armate non avrebbero avuto pietà, avrebbero fucilato senza processo chiunque fosse stato sorpreso a rubare o a commettere altri delitti. Aggiunse che era impossibile recuperare tutti i cadaveri o accertare la sorte delle migliaia di dispersi, per cui l’intera valle sarebbe stata dichiarata camposanto e i vescovi sarebbero venuti a celebrare una messa solenne per l’anima delle vittime. Si diresse alle tende dell’Esercito, dove si accalcavano i salvati, per dar loro il sollievo di promesse incerte, e all’improvvisato ospedale per dire una parola di incoraggiamento ai medici e alle infermiere, stremati da tante ore di penurie. Poi si fece condurre al luogo in cui si trovava Azucena, che allora era già celebre perché la sua immagine aveva fatto il giro del pianeta. La salutò con la sua languida mano di statista e i microfoni registrarono la sua voce commossa e il suo accento paterno quando le disse che il suo coraggio era un esempio per la patria. Rolf Carlé lo interruppe per chiedergli una pompa, e lui gli assicurò che se ne sarebbe occupato personalmente. Riuscii a vedere Rolf per qualche istante, in ginocchio accanto al buco. Nel telegiornale della sera si trovava nella stessa posizione; e io, china sullo schermo come un’indovina sulla sfera di cristallo, capii che qualcosa di fondamentale era cambiato in lui, indovinai che durante la notte erano crollate le sue difese e si era arreso al dolore, finalmente vulnerabile. Quella bambina aveva toccato una parte della sua anima cui lui stesso non aveva avuto accesso, e che non condivise mai con me. Rolf volle consolarla, e fu Azucena a consolare lui. Mi resi conto del momento preciso in cui Rolf smise di lottare e si abbandonò al tormento di vegliare l’agonia della bambina. Io fui con loro per tre giorni e tre notti, spiandoli dall’altro lato della vita. Mi trovavo lì quando lei gli disse che nei suoi tredici anni di vita nessun ragazzo l’aveva amata, e che era un peccato andarsene da questo mondo senza conoscere l’amore, e lui le assicurò che l’amava come non avrebbe mai potuto amare nessuno, più di sua madre e sua sorella, più di tutte le donne che avevano dormito fra le
sue braccia, più di me, la sua compagna, che avrebbe dato qualunque cosa per essere intrappolato in quel buco al suo posto, che avrebbe scambiato la propria vita con quella di lei, e vidi quando si chinò sulla sua povera testa e la baciò in fronte, confuso da un entrambi dalla disperazione, si liberarono dal fango, si innalzarono al di sopra degli avvoltoi e degli elicotteri, volarono insieme sopra quel vasto pantano di putredine e lamenti. E finalmente poterono accettare la morte. Rolf Carlé pregò in silenzio che lei morisse presto, perché non era più possibile sopportare tanto dolore. Allora io avevo trovato una pompa, ed ero in contatto con un generale pronto a mandarla la mattina del giorno seguente con un aereo militare. Ma la sera di quel terzo giorno, sotto le implacabili lampade al quarzo e le lenti di cento telecamere, Azucena si arrese, gli occhi perduti in quelli dell’amico che l’aveva sostenuta fino alla fine. Rolf Carlé le tolse il salvagente, le chiuse gli occhi, la tenne stretta al petto per alcuni minuti e poi la lasciò. Affondò lentamente, un fiore nel fango.
Sei tornato con me, ma non sei più lo stesso uomo. Ogni tanto ti accompagno alla Televisione e rivediamo i video di Azucena, li studi con attenzione, cercando qualcosa che avresti potuto fare per salvarla e che non ti venne in mente in tempo. O forse li esamini per vederti come in uno specchio, nudo. Le tue telecamere sono abbandonate in un armadio, non scrivi né canti, rimani per ore seduto davanti alla finestra guardando le montagne. Al tuo fianco, io aspetto che tu abbia completato il viaggio dentro te stesso e guarito le vecchie ferite. So che quando tornerai dai tuoi incubi cammineremo ancora mano nella mano, come prima.
E in quel momento della sua narrazione Sherazade vide apparire l’alba e tacque discretamente. (Le mille e una notte)

15 dicembre 2018

Sotto stretta sorveglianza - Di Vittorio Nel Casellario Politico centrale

 Sotto stretta sorveglianza - Di Vittorio Nel Casellario Politico centrale
«Ci sono due modi possibili di leggere e interpretare questa imponente mole di documenti, introdotti e annotati con ammirevole cura da Francesco Giasi, Fabrizio Loreto e Maria Luisa Righi: due modi che in realtà si debbono integrare a vicenda», scrive Aldo Agosti nella sua prefazione. Le carte provenienti dal fascicolo di Giuseppe Di Vittorio nel Casellario politico centrale da un lato forniscono tanti preziosi tasselli per la costruzione di una biografia del sindacalista pugliese che, dai primi passi mossi nella nativa Cerignola nel 1911 sino alla sua liberazione dal confino a Ventotene, nel 1943, si snoda per oltre trent'anni. Dall'altra vi si può leggere l'evoluzione delle politiche repressive dello Stato, liberale prima, fascista poi. Finalizzate al controllo dei «sovversivi» e alla loro cattura quando perseguiti dall'autorità giudiziaria, le carte del Ministero dell'Interno debbono essere ovviamente «interpretate» e lette nel loro contesto storico. Per questa al lettore sono proposte nove tappe della biografia politica di Giuseppe Di Vittorio sino al 1943, illustrate da altrettante introduzioni. Inoltre, i documenti - corrispondenza, appunti, note della polizia politica, lettere delle ambasciate, dei prefetti, delazioni di spie e infiltrati, materiale sequestrato - sono riccamente annotati per chiarire episodi, luoghi e, soprattutto, chi sono le centinaia di personaggi citati nei documenti me Di Vittorio incontrò nella sua lunga attività: contadini e sindacalisti, socialisti e comunisti, repubblicani e giellisti, liberali e anarchici, avversari politici e persone amatissime, dirigenti e semplici militanti.

Che fare ? – Lenin

Che fare ? – Lenin
d) Che cosa hanno in comune l’economismo e il terrorismo

Più sopra in una nota abbiamo messo a confronto un economista con un terrorista non socialdemocratico che per caso si sono trovati d‘accordo. Ma, in generale, tra gli economisti e i terroristi esiste un legame non accidentale, ma necessario, intrinseco, del quale dovremo ancora occuparci parlando della  educazione dell‘attività rivoluzionaria. Gli economisti e i terroristi della nostra epoca hanno una radice comune: la sottomissione alla spontaneità di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente come di un fenomeno generale e di cui esamineremo ora l‘influenza sull‘azione e sulla lotta politica. A prima vista, la nostra affermazione può sembrare paradossale, tanto grande sembra la differenza tra coloro che antepongono a tutto la "grigia lotta quotidiana" e coloro che propugnano la lotta che esige la massima abnegazione: la lotta di individui isolati. Ma non si tratta per niente di un paradosso. Economisti e terroristi si prosternano davanti ai due poli opposti della tendenza della spontaneità: gli economisti dinanzi alla spontaneità del "movimento operaio puro", i terroristi dinanzi alla spontaneità e allo sdegno appassionato degli intellettuali che non sanno collegare il lavoro rivoluzionario e il movimento operaio, o non ne hanno la possibilità. È infatti difficile, per chi non ha più fiducia in tale possibilità o non vi ha mai creduto, trovare al proprio sdegno e alla propria energia rivoluzionaria uno sbocco diverso dal terrorismo. Perciò la sottomissione alla spontaneità nelle due direzioni indicate non è che l‘inizio dell‘attuazione del famoso programma del "Credo": gli operai conducono la "lotta economica contro i padroni e contro il governo" (l‘autore del "Credo" ci perdoni se esprimiamo il suo pensiero nel linguaggio di Martynov: riteniamo di averne il diritto, perché anche nel "Credo" si dice che la lotta economica "spinge gli operai a occuparsi del regime politico"), e gli intellettuali sviluppano la lotta politica con le loro proprie forze ricorrendo, naturalmente, al terrorismo. È questa una deduzione assolutamente logica e inevitabile, sulla quale non si insisterà mai troppo, anche se la sua inevitabilità non è compresa da coloro stessi che cominciano a mettere in pratica tale programma. L‘attività politica ha una propria logica, indipendente dalla coscienza di coloro che, con le migliori intenzioni del mondo, fanno appello al terrorismo oppure domandano che si dia alla stessa lotta economica un carattere politico. L‘inferno è lastricato di buone intenzioni, e in questo caso le buone intenzioni non salvano ancora dal lasciarsi attrarre dalla "linea del minimo sforzo", dalla linea del programma puramente borghese del "Credo". Infatti, non è casuale neppure la circostanza che molti liberali russi - liberali schietti e liberali mascherati da marxisti - simpatizzano con tutta l‘anima col terrorismo e si sforzano oggi di appoggiare lo sviluppo delle tendenze terroristiche.
La creazione del «Gruppo rivoluzionario socialista Svoboda», che si prefigge di aiutare con tutti i mezzi il movimento operaio, ma che nel proprio programma ha incluso il terrorismo e la propria emancipazione, per così dire, dalla socialdemocrazia, ha confermato una volta di più la notevole perspicacia di P. Axelrod il quale già alla fine del 1897 aveva predetto letteralmente che le oscillazioni socialdemocratiche avrebbero portato a questi risultati e aveva tracciato le sue celebri «due prospettive» (Problemi riguardanti i compiti attuali e la tattica). Tutte le discussioni e le divergenze che seguono tra i socialdemocratici russi sono contenute, come la pianta nel  seme, in quelle due prospettive. Dal punto di vista che abbiamo indicato, è chiaro che il Raboceie Dielo, non avendo resistito alla spontaneità dell'economismo, non ha potuto resistere nemmeno alla spontaneità del terrorismo. In difesa del terrorismo, il gruppo Svoboda adduce argomenti particolari che è molto interessante notare. Esso «nega completamente» la funzione intimidatrice del terrorismo, ma ne sottolinea la «funzione di incitamento [di stimolo]»! Ciò è caratteristico, anzitutto, come uno degli stadi della decadenza e della disgregazione di quel ciclo di idee tradizionali (presocialdemocratiche) che aveva permesso al terrorismo di affermarsi. Riconoscere che oggi è impossibile «intimidire» — e, quindi, disorganizzare — il governo col terrorismo, significa in sostanza condannarlo completamente come metodo di lotta, come sfera di attività sanzionata da un programma. Ma la cosa è ancora più caratteristica come esempio di incomprensione dei nostri compiti immediati per «educare le masse all'attività rivoluzionaria». Il gruppo Svoboda propugna il terrorismo come mezzo per «stimolare» il movimento operaio, per dargli «un impulso vigoroso ». Sarebbe difficile immaginare un argomento che si confuti da se stesso con maggiore evidenza! In Russia ci sono forse così pochi scandali da dover inventare «stimolanti» speciali? D'altra parte, non è evidente che coloro i quali non si sentono stimolati e non sono passibili di essere stimolati nemmeno dal regime di arbitrio che domina in Russia rimarranno egualmente «con le mani in tasca» di fronte al duello di un pugno di terroristi con il governo? Le infamie della vita russa stimolano fortemente le masse operaie, ma noi non sappiamo, per così dire, né raccogliere, né concentrare tutte le gocce e i getti dell'effervescenza popolare, che, infinitamente più numerosi di quanto crediamo, si sprigionano dalla vita russa, e che bisogna appunto fondere in un solo gigantesco torrente. Che ciò sia possibile è provato in modo certo dal grande sviluppo del movimento operaio e dall'ardente interesse degli operai — già segnalato precedentemente — per le pubblicazioni politiche. Fare appello al terrorismo o fare appello a che sia dato alla stessa lotta economica un carattere politico, sono due modi diversi di sottrarsi al dovere più imperioso dei rivoluzionari russi: l‘organizzazione di una multiforme agitazione politica. Il gruppo Svoboda vuole sostituire all‘agitazione il terrorismo, riconoscendo apertamente che "dal momento in cui comincerà tra le masse una agitazione energica e vigorosa, la funzione stimolatrice del terrorismo sarà finita". Questa confessione mostra appunto che terroristi ed economisti sottovalutano l‘attività rivoluzionaria delle masse, che pure è chiaramente dimostrata dagli avvenimenti della primavera. Gli uni cercano degli "stimolanti" artificiali, gli altri parlano di "rivendicazioni concrete". Gli uni e gli altri non rivolgono sufficiente attenzione allo sviluppo della loro attività per l‘agitazione politica e per l‘organizzazione di campagne di denunce politiche. Eppure non c‘è niente che possa sostituirle né oggi, né in qualsiasi altro momento.

La questione meridionale - Antonio Gramsci

La questione meridionale - Antonio Gramsci
Gli operai d'officina e i contadini poveri sono le due energie della rivoluzione proletaria. Per loro specialmente il comunismo rappresenta una necessità essenziale: il suo avvento significa la vita e la libertà, il permanere della proprietà privata significa il pericolo immanente di essere stritolati, di tutto perdere fino alla vita fisica. Essi sono l'elemento irriducibile, la continuità dell'entusiasmo rivoluzionario, la ferrea volontà di non accettare compromessi, di proseguire implacabilmente fino alle realizzazioni integrali, senza demoralizzarsi per gli insuccessi parziali e transitori, senza farsi troppe illusioni per i facili successi.
Sono la spina dorsale della rivoluzione, i ferrei battaglioni dell'esercito proletario che avanza, rovesciando con l'impeto gli ostacoli o assediandoli con le sue maree umane che sgretolano, corrodono con opera paziente, con indefesso sacrificio. Il comunismo è la loro civiltà, è il sistema di condizioni storiche nelle quali acquisteranno una personalità, una dignità, una cultura, per il quale diventeranno spirito creatore di progresso e di bellezza.
Ogni lavoro rivoluzionario ha probabilità di buona riuscita solo in quanto si fonda sulle necessità della loro vita e sulle esigenze della loro cultura. Ciò è indispensabile comprendano i leaders del movimento proletario e socialista. Ed è necessario comprendano come urga il problema di dare a questa forza incoercibile della rivoluzione la forma adeguata alla sua psicologia diffusa.
Nelle condizioni arretrate dell'economia capitalistica di prima della guerra non era stato possibile il sorgere e lo svilupparsi di vaste e profonde organizzazioni contadine, nelle quali i lavoratori dei campi si educassero ad una concezione organica della lotta di classe e alla disciplina permanente necessaria per la ricostruzione dello Stato dopo la catastrofe capitalistica.
Le conquiste spirituali realizzate durante la guerra, le esperienze comunistiche accumulate in quattro anni di sfruttamento del sangue, subíto collettivamente, stando gomito a gomito nelle trincee fangose e insanguinate, possono andare perdute se non si riesce a inserire tutti gli individui in organi di vita nuova collettiva, nel funzionamento e nella pratica dei quali le conquiste possono solidificarsi, le esperienze possano svilupparsi, integrarsi, essere rivolte consapevolmente al raggiungimento di un fine storico concreto. Cosí organizzati i contadini diventeranno un elemento di ordine e di progresso; abbandonati a se stessi, nell'impossibilità di svolgere una azione sistematica e disciplinata, essi diventeranno un tumulto incomposto, un disordine caotico di passioni esasperate fino alla barbarie piú crudele dalle sofferenze inaudite che si vanno profilando sempre piú spaventosamente.
La rivoluzione comunista è essenzialmente un problema di organizzazione e di disciplina. Date le condizioni reali obiettive della società italiana, della rivoluzione saranno protagoniste le città industriali, con le loro masse compatte e omogenee di operai di officina. Bisogna dunque rivolgere la massima attenzione alla vita nuova che la nuova forma della lotta di classe suscita nell'interno della fabbrica e nel processo di produzione industriale. Ma con le sole forze degli operai d'officina la rivoluzione non potrà affermarsi stabilmente e diffusamente: è necessario saldare la città alla campagna, suscitare nella campagna istituzioni di contadini poveri sulle quali lo Stato socialista possa fondarsi e svilupparsi, attraverso le quali sia possibile allo Stato socialista promuovere l'introduzione delle macchine e determinare il grandioso processo di trasformazione dell'economia agraria. In Italia quest'opera è meno difficile di quanto si pensi: durante la guerra sono entrate nella fabbrica cittadina ingenti quantità di popolazione rurale: su di essa la propaganda comunista ha rapidamente attecchito; essa deve servire di cemento tra la città e la campagna, deve essere utilizzata per svolgere nella campagna una fitta opera di propaganda che distrugga le diffidenze e i rancori, deve essere utilizzata perché, valendosi della sua profonda conoscenza della psicologia rurale e della fiducia che gode, inizi appunto l'attività necessaria per determinare il sorgere e lo svilupparsi delle istituzioni nuove che incorporino nel movimento comunista le vaste forze dei lavoratori dei campi.

L'anno della morte di Ricardo Reis - José Saramago


L'anno della morte di Ricardo Reis - José Saramago
Nessuna luce nelle camere.
Avanzò nel corridoio con cautela, per non svegliare chi stesse dormendo, per tre secondi trattenne il passo alla porta di Marcenda, poi proseguì. L’aria della camera era fredda, umida, poco meno che in riva al fiume. Rabbrividì come se ancora stesse guardando le imbarcazioni livide, mentre ascoltava i passi del poliziotto, e si domandò fra sé e sé che cosa sarebbe successo se gli avesse risposto, Sì, ci sono novità, anche se non avrebbe saputo dire altro che questo, solo ripetere, Ci sono novità, ma non quali fossero né ciò che
significava. Avvicinandosi al letto notò che sotto la coperta c’era una sporgenza, ci avevano messo qualcosa, lì fra le lenzuola, uno scaldino, si vedeva subito, ma per accertarsene gli mise una mano sopra, era caldo, che brava ragazza quella Lidia, ricordarsi di scaldargli il letto, è chiaro che non lo fanno a tutti gli ospiti, probabilmente stanotte non verrà. Si è coricato, ha aperto il libro che aveva sul comodino, quello di Herbert Quain, ha scorso con gli occhi due pagine senza prestare molta attenzione a quel che leggeva, sembrava fossero state trovate tre ragioni per il delitto,
ognuna di per sé sufficiente per incriminare l’indiziato sul quale tutte convergevano, ma il suddetto indiziato, avvalendosi della legge e compiendo il dovere di collaborare con la giustizia, aveva suggerito che la vera ragione, nel caso fosse stato lui, di fatto, il criminale, avrebbe anche potuto essere una quarta, o quinta, o sesta ragione, ugualmente sufficienti, e che la spiegazione del delitto, i suoi motivi, si sarebbero potuti trovare, forse, soltanto forse, nell’interconnessione di tutte queste ragioni, nella loro azione reciproca, nell’effetto di ogni insieme sui restanti insiemi e sul tutto, nell’eventuale ma più che probabile annullamento o alterazione di effetti da parte di altri effetti, e come si era giunti al risultato finale, la morte, e anche così bisognava verificare che parte di responsabilità spettasse alla vittima, proprio così, se questa avrebbe dovuto o no essere considerata, agli effetti morali e legali, come una settima e forse, ma soltanto forse, definitiva ragione. Si sentiva sollevato, lo scaldino gli scaldava i piedi, il cervello funzionava senza legame cosciente con l’esterno, l’aridità della lettura gli faceva pesare le palpebre. Ha chiuso per qualche secondo gli occhi e quando li ha aperti c’era Fernando Pessoa seduto ai piedi del letto, come se fosse venuto in visita a un malato, con quella stessa espressione straniata che ha lasciato in alcune fotografie, le mani incrociate sulla coscia destra, la testa leggermente inclinata in avanti, pallido. Ha messo da parte il libro, fra i due guanciali, Non ti aspettavo a quest’ora, ha detto, e ha sorriso, amabile, perché lui non notasse l’impazienza del tono, l’ambiguità delle parole, che tutto questo insieme poteva significare, Potevi anche fare a meno di venire oggi.
Aveva le sue buone ragioni, anche se soltanto due, la prima perché gli andava di parlare solo della serata a teatro e di quanto era successo, ma non con Fernando Pessoa, la seconda, perché niente di più facile che gli entrasse in camera Lidia, non che ci fosse il pericolo che si mettesse a gridare, Aiuto, un fantasma, ma perché Fernando Pessoa, benché non fosse nel suo carattere, poteva anche volersene rimanere lì, coperto dalla sua invisibilità, ma capace di apparire, a seconda degli umori del momento, ad assistere alle intimità carnali e sentimentali, non sarebbe stato certo impossibile. Dio, che è Dio, di solito lo fa, né potrebbe evitarlo, se è dappertutto, ma a lui ormai ci siamo abituati. Fa appello alla complicità maschile, Non potremo parlare a lungo, forse avrò una visita, devi ammettere che sarebbe imbarazzante, Non perdi tempo, non sono ancora tre settimane che sei arrivato e già ricevi visite galanti, presumo che siano galanti, Dipende da ciò che si vuole intendere con galante, è una cameriera dell’albergo, Mio caro Reis, tu, un esteta, in intimità con tutte le dee dell’Olimpo, a spalancare il tuo letto a una cameriera d’albergo, a una serva, e io che mi ero abituato a sentirti parlare ogni momento con ammirevole costanza, delle tue Lidie, Neere e Cloe, e ora mi esci fuori prigioniero di una cameriera, che gran delusione, Questa cameriera si chiama Lidia, e io non sono prigioniero, né sono uomo da prigionia, Ah, ah, alla…

A ciascuno il suo - Leonardo Sciascia

 A ciascuno il suo - Leonardo Sciascia

Che un delitto si offra agli inquirenti come un quadro i cui elementi materiali e, per così dire, stilistici consentano, se sottilmente reperiti e analizzati, una sicura attri-buzione, è corollario di tutti quei romanzi polizieschi cui buona parte dell'umanità si abbevera. Nella realtà le cose stanno però diversamente: e i coefficienti dell'impunità e dell'errore sono alti non perché (o non soltanto, o non sempre) è basso l'intelletto degli inquirenti, ma perché gli elementi che un delitto offre sono di solito assoluta-mente insufficienti. Un delitto, diciamo, commesso o organizzato da gente che ha tut-ta la buona volontà di contribuire a tenere alto il coefficiente di impunità.
Gli elementi che portano a risolvere i delitti che si presentano con carattere di mistero o di gratuità sono la confidenza diciamo professionale, la delazione anonima, il caso. E un po', soltanto un po', l'acutezza degli inquirenti.
Il caso, per il professor Laurana, scattò a Palermo, in settembre. Si trovava già da qualche giorno in quella città, commissario d'esami in un liceo; e nel ristorante che usava frequentare incontrò un compagno di scuola che da tanto tempo non vede-va ma di cui alla lontana aveva seguito l'ascesa politica. Comunista: segretario di se-zione in un piccolo paese delle Madonie, poi deputato regionale, poi deputato nazio-nale. Ricordarono, naturalmente, il loro tempo di studenti; e quando affiorò il povero Roscio, «Mi ha fatto tanta impressione, la notizia della sua morte» disse l'onorevole «perché era venuto a trovarmi proprio quindici o venti giorni prima. Non lo vedevo da almeno dieci anni. È venuto a trovarmi a Roma, alla Camera. L'ho riconosciuto subito, non era cambiato... Noi forse sì, un poco... Io, poi, ho avuto il pensiero che la sua morte fosse da collegarsi a quella sua venuta a Roma, da me: ma ho visto che le indagini hanno accertato che è morto, invece, solo perché si era trovato in compagnia di un tale che aveva sedotto una ragazza, non so... E sai perché era venuto da me? Per domandarmi se ero disposto a denunciare alla Camera, sui nostri giornali, nei comizi, un notabile del vostro paese, uno che aveva in mano tutta la provincia, che faceva e disfaceva, che rubava, corrompeva, intrallazzava...»
«Uno del paese? Davvero?»
«Pensandoci bene, non credo mi abbia detto esplicitamente che si trattava di uno del paese: forse me l'ha lasciato intendere, forse mi sono fatta questa impressione...»
«Un notabile, uno che tiene in mano la provincia?»
«Sì, questo lo ricordo bene: ha detto proprio così... Io, naturalmente, gli ho ri-sposto che sarei stato più che lieto di denunciare, di lanciare lo scandalo: ma avevo bisogno, si capisce, di qualche documento, di qualche prova... Mi ha detto che dispo-neva di tutto un dossier, che me l'avrebbe portato... E non si è fatto più vivo.»
«Naturalmente.»
«Già, naturalmente: visto che vivo non era più.»

Castelli di rabbia - Alessandro Baricco

Castelli di rabbia - Alessandro Baricco
quando la gente ti dirà che hai sbagliato... e avrai errori dappertutto dietro al schiena, fregatene.
Ricordatene. Devi fregartene. Tutte le bocce di cristallo che hai rotto erano solo vita... non sono quelli gli errori... quella è vita... e la vita vera magari è proprio quella che si spacca, quella vita su cento che alla fine si spacca..... io questo l'ho capito, il mondo è pieno di gente che gira con in tasca le sue piccole biglie di vetro....le sue piccole tristi biglie infrangibili..... e allora tu non smetterla mai di soffiare nelle tue sfere di cristallo..... sono belle, a me è piaciuto guardarle, per tutto il tempo che ti sono stato vicino... ci si vede dentro tanta di quella roba..... é una cosa che ti mette l'allegria addosso.. .non smetterla mai..... e se un giorno scoppieranno anche quella sarà vita, a modo suo..... meravigliosa vita.

Caccia alle donne - James Elleroy

Caccia alle donne - James Elleroy
Ho invocato la Maledizione mezzo secolo fa. Essa definisce la mia vita a partire dal decimo compleanno. I suoi effetti pressoché immediati mi hanno mantenuto in pressoché costante dialogo e pressoché costante ammenda. Scrivo storie per consolare lo spettro che è lei. Lei è onnipresente e mai familiare. Altre donne aleggiano in carne e ossa. Hanno le loro storie. La loro carezza mi ha salvato in misura di volta in volta variabile e permesso di sopravvivere ai miei insani appetiti e ambizioni. Loro hanno retto alla mia sconsideratezza e alla mia voracità. Io ho opposto resistenza alle loro reprimende. Il mio talento di narratore è impenetrabilmente saldo e radicato nel momento in cui l'ho voluta morta e ho ordinato il suo assassinio. Le donne mi danno il mondo e fanno sì che io sia tenuemente al sicuro nel mondo. Non posso rivolgermi a Loro in cerca di Lei per molto tempo ancora. La mia ossessiva volontà è allo stremo. La Loro storia deve eclissare la Sua per mole e contenuto.

Storie - Erodoto

Storie - Erodoto
Raccontano poi che alla generazione seguente Alessandro, figlio di Priamo, volle procurarsi mediante un rapimento una donna greca – avendo egli avuto notizia di questi accadimenti – ben consapevole che non avrebbe dovuto risponderne, dal momento che neppure coloro ne avevano dovuto rispondere. Così, dunque, quando egli rapì Elena, i Greci per prima cosa decisero di inviare degli ambasciatori per chiedere che Elena venisse restituita e che il rapimento venisse risarcito. Tuttavia, a queste richieste quelli che l’avevano rapita risposero rinfacciando il rapimento per parte loro di Medea ed il fatto che costoro chiedessero dagli altri soddisfazione senza averla essi stessi data e senza aver restituito quello che a loro veniva richiesto. (Il rapimento di Elena. 1.3

Ines dell'anima mia - Isabel Allende

Questa Conquista ha causato immense sofferenze... Nessuno può perdonare tanta crudeltà, e men che meno i mapuche, che non dimenticano mai le offese, come neppure i favori ricevuti. Mi tormentavano i ricordi, ero come posseduta dal demonio. Sai già, Isabel, che fatta eccezione per qualche sussulto del cuore, sono sempre stata sana, con il favore di Dio, e quindi non ho altre spiegazioni per la malattia che mi afflisse in quei giorni. Mentre Pedro sopportava la sua orrenda fine, da lontano la mia anima lo accompagnava e piangeva per lui e per tutte le vittime di questi anni. Rimasi prostrata da un vomito così intenso e da febbri talmente alte che temettero per la mia vita. Nel mio delirio sentivo con chiarezza le grida di Pedro de Valdivia e la sua voce che prendeva commiato da me per l'ultima volta: "Addio, Inés dell'anima mia...".

Uno, nessuno e centomila - Luigi Pirandello

Uno, nessuno e centomila - Luigi Pirandello
Mia moglie e il mio naso
.
– Che fai? – mia moglie mi domandò, vedendomi in solitamente indugiare davanti allo specchio.
– Niente, – le risposi, – mi guardo qua, dentro il naso, in questa narice. Premendo, avverto un certo dolorino.
Mia moglie sorrise e disse:
– Credevo ti guardassi da che parte ti pende.
Mi voltai come un cane a cui qualcuno avesse pestato la coda:
– Mi pende? A me? Il naso?
E mia moglie, placidamente:
– Ma sì, caro. Guardatelo bene: ti pende verso destra.
Avevo ventotto anni e sempre fin allora ritenuto il mio naso, se non proprio bello, almeno molto decente, come insieme tutte le altre parti della mia persona. Per cui m’era stato facile ammettere e sostenere quel che di solito ammettono e sostengono tutti coloro che non hanno avuto la sciagura di sortire un corpo deforme: che cioè sia da sciocchi invanire per le proprie fattezze. La scoperta improvvisa e inattesa di quel difetto perciò mi stizzí come un immeritato castigo.
Vide forse mia moglie molto più addentro di me in quella mia stizza e aggiunse subito che, se riposavo nel
¬ la certezza d’essere in tutto senza mende, me ne levassi pure, perché, come il naso mi pendeva verso destra, cosí...
– Che altro?
Eh, altro! altro! Le mie sopracciglia parevano sugli occhi due accenti circonflessi, ^ ^, le mie orecchie erano attaccate male, una più sporgente dell’altra; e altri difetti...
– Ancora?
Eh sì, ancora: nelle mani, al dito mignolo; e nelle gambe (no, storte no!), la destra, un pochino più arcuata dell’altra: verso il ginocchio, un pochino.
Dopo un attento esame dovetti riconoscere veri tutti questi difetti. E solo allora, scambiando certo per dolore e avvilimento, la maraviglia che ne provai subito dopo la stizza, mia moglie per consolarmi m’esortò a non affliggermene poi tanto, ché anche con essi, tutto sommato, rimanevo un bell’uomo.
Sfido a non irritarsi, ricevendo come generosa concessione ciò che come diritto ci è stato prima negato.
Schizzai un velenosissimo «grazie» e, sicuro di non aver motivo né d’addolorarmi né d’avvilirmi, non diedi alcuna importanza a quei lievi difetti, ma una grandissima e straordinaria al fatto che tant’anni ero vissuto senza mai cambiar di naso, sempre con quello, e con quelle sopracciglia e quelle orecchie, quelle mani e quelle gambe; e dovevo aspettare di prender moglie per aver conto che li avevo difettosi.
– Uh che maraviglia! E non si sa, le mogli? Fatte apposta per scoprire i difetti del marito.

da " American Tabloid" - James Elleroy

da " American Tabloid" - James Elleroy
Si faceva sempre alla luce del televisore.
Alcuni latinoamericani agitavano armi da fuoco. Il capo del gruppo si piluccava insetti dalla barba e fomentava i suoi. Immagini in bianco e nero: tecnici della Cbs in divisa mimetica. Cuba, brutta storia, disse un annunciatore. I ribelli di Fidel Castro contro l’esercito regolare di Fulgencio Batista.
Howard Hughes trovò la vena e si iniettò la codeina. Pete lo osservò di soppiatto: Hughes aveva la porta della camera socchiusa.
La droga giunse a destinazione. Il volto di Big Howard si fece vacuo.
Dall’esterno giunse lo sferragliare dei carrelli del servizio in camera. Hughes si tolse la siringa dal braccio e prese a scanalare. Howdy Doody rimpiazzò il telegiornale: perfetto per il Beverly Hills Hotel.
Pete uscì sulla veranda: vista sulla piscina, punto ottimale per la ricognizione. Pessimo tempo, oggi: nessuna stellina in bikini. Controllò l’ora, teso.
A mezzogiorno doveva procurare un divorzio: il marito si scolava i suoi pranzi da solo e adorava la passera in erba. Procurarsi flash di qualità: le fotografie sfocate facevano credere che a scopare fossero due ragni. Per conto di Hughes: scoprire chi si occupa di consegnare i mandati di comparizione per l’indagine dell’antitrust sulla Twa e convincerli a suon di dollari a riferire che Big Howard è partito per Marte.

da "Alla ricerca del tempo perduto" - Marcel Proust

 da "Alla ricerca del tempo perduto" - Marcel Proust

Tornai a casa. Avevo vissuto il Capodanno dei vecchi, che differiscono in quel giorno dai giovani non perché non ricevono più strenne, ma perché non credono più all'anno nuovo. Strenne io ne avevo avute, ma non quell'unica che mi avrebbe fatto piacere e che sarebbe stata un messaggio di Gilberte. Tuttavia, ero pur sempre giovane, se avevo potuto scrivergliene uno con la speranza che dirle i sogni lontani della mia tenerezza ne risvegliasse di simili in lei. La tristezza degli uomini che sono invecchiati è di non pensare neppure a scrivere certe lettere di cui hanno imparato l'inutilità.
Quando fui a letto, i rumori della strada, che si prolungavano più del solito in quella sera di festa, mi tennero sveglio. Pensavo a tutti quelli che avrebbero finito quella notte nei piaceri, all'amante, alla comitiva di dissoluti forse, che doveva essere andata a prendere la Berma al termine della rappresentazione che avevo visto annunciata per quella sera. Non potevo nemmeno dirmi, per calmare l'agitazione che una tale idea mi faceva nascere dentro in quella notte d'insonnia, che forse la Berma non pensava all'amore, perché i versi che recitava, che aveva lungamente studiati, le rammentavano a ogni istante che esso è delizioso, come del resto lei sapeva così bene da farne apparire il turbamento ben noto - ma animato da una violenza nuova e da una dolcezza insospettata – a spettatori stupiti, ciascuno dei quali tuttavia l'aveva sperimentato personalmente. Riaccesi il lume spento per guardare ancora una volta il suo viso. Al pensiero che sicuramente in quel momento, esso era accarezzato da quegli uomini a cui non potevo impedire di dare alla Berma e di ricevere da lei gioie sovrumane e vaghe, provai un'emozione più crudele che voluttuosa, una nostalgia che fu aggravata dal suono del corno, come avviene di udirlo la notti di mezza quaresima, e spesso di altre feste, e che è più triste, perché è senza poesia quando proviene da una bettola, che non «la sera, nel fondo dei boschi». In quel momento, un messaggio di Gilberte non sarebbe stato forse quello di cui avevo bisogno. I nostri desideri interferiscono via via fra loro, e, nella confusione dell'esistenza, è raro che una felicità giunga a posarsi esattamente sul desiderio che l'aveva invocata.
Continuai ad andare agli Champs-Élysées i giorni di bel tempo, lungo strade le cui case eleganti e rosate erano immerse - erano in grande auge in quel momento le mostre degli acquerellisti - in un cielo mobile e lieve. Mentirei se dicessi che a quel tempo i palazzi di Gabriel mi parevano d'una bellezza maggiore o almeno d'un'altra epoca degli edifici vicini. Riconoscevo più stile e, mi sembrava, più antichità, se non al Palazzo dell'Industria, certo a quello del Trocadéro. Immersa in un sonno agitato, la mia adolescenza avvolgeva in uno stesso sogno tutto il quartiere ih cui lo portava in giro; e non avevo mai pensato che potesse esserci un edificio del Diciottesimo secolo nella rue Royale, così come sarei stato sorpreso di venire a sapere che la Porte Saint-Martin e la Porte Saint-Denis, capolavori del tempo di Luigi Quattordicesimo, non erano contemporanee degli immobili più recenti di quei sordidi quartieri.
Una sola volta uno dei palazzi di Gabriel mi fece fermare a lungo; sopravvenuta la notte, le sue colonne smaterializzate dal chiaro di luna sembravano ritagliate nel cartone, e, ricordandomi uno scenario dell'operetta "Orphée aux Enfers", mi davano per la prima volta un'impressione di bellezza. Gilberte però continuava a non tornare agli Champs-Élysées. Eppure, avrei avuto bisogno di vederla, perché non ricordavo nemmeno il suo viso. Il modo indagatore, ansioso, esigente che abbiamo di guardare la persona amata, l'attesa della parola che ci darà o ci toglierà la speranza di un appuntamento per l'indomani e, finché quella parola non è detta, il nostro alterno, se non simultaneo, immaginare la gioia e la disperazione, tutto ciò rende la nostra attenzione davanti all'essere amato troppo trepidante perché possa ottenere di lui un'immagine ben precisa. Forse anche questa attività contemporanea di tutti i sensi, e che cerca di conoscere con i soli sguardi ciò che è al di là di essi, è troppo indulgente alle mille forme, a tutti i sapori, ai movimenti della persona viva che di solito, quando non amiamo, immobilizziamo. Il modello a noi caro, invece, si muove, e non riusciamo ad averne mai altro che fotografie mancate. Io non sapevo più veramente come fossero fatti i lineamenti di Gilberte, salvo nei momenti divini in cui lei li dispiegava per me; ricordavo solo il suo sorriso. E, non potendo rivedere quel viso diletto, per quanto mi sforzassi di ricordarmelo, mi irritavo di trovare, disegnati nella mia memoria con un'esattezza definitiva, i visi inutili ed evidenti dell'uomo della giostra e della venditrice di zucchero d'orzo: così chi ha perduto un essere amato che dormendo non rivede mai, si esaspera nell'incontrare incessantemente nei sogni tanta gente insopportabile e che è già troppo aver conosciuta da sveglio. Nella sua impotenza a rappresentarsi l'oggetto del proprio dolore, quasi si accusa di non provare dolore. E io non ero lontano dal credere che, non potendomi rammentare i lineamenti di Gilberte, l'avevo dimenticata, non l'amavo più.