Carlo Magini - Natura morta: zuppiera, tegame, uova e bottiglia
da “I segreti della tavola di Montalbano” – Stefania Campo
Pietanze che risultano essere assolutamente indigeste per lo stomaco poi tutt’altro che delicato del nostro commissario. “Si era fatta l’ora di andare a mangiare. Sì, ma dove? La conferma che il suo mondo aveva cominciato ad andare a scatafascio il commissario l’aviva avuta appena una misata appresso il G8, quando alla fine di una mangiata di tutto rispetto, Calogero, il proprietario-coco-cammarer i della trattoria ‘San Calogero’, gli aviva annunziato che, sia pure di malavoglia, si ritirava.
‘Stai cugliunanno, Calò?’.
‘Nonsi, dottore. Come vossia sapi, io ho dù bipass e sittantatri anni sunati. U medicu non voli cchiù che continuo a travagliari’.
‘E io?!’ gli era scappato di dire a Montalbano. Di colpo si era sentito infilici come un pirsonaggio dei romanzi popolari, la sedotta e abbandonata cacciata fora di casa col figlio della colpa in grembo, la piccola fiammiferaia sotto la neve, l’orfano che cerca nella munnizza qualichi cosa da mangiari…
Calogero, a risposta, aviva allargato le vrazza sconsolato. E doppo era arrivato il tirribili jorno nel quale Calogero gli aviva sussurrato:
‘Dumani nun vinissi. È chiuso’.
Si erano abbrazzati quasi chiangenno. Ed era principiata la viacruci. Tra ristoranti, trattorie, osterie ne provò, nei giorni appresso, una mezza duzzina, ma non erano cosa.
Non che, in cuscienza, si poteva diri che cucinavano mali, il fatto era che a tutti gli mancava l’indefinibile tocco dei piatti di Calogero. Per un certo periodo, addecise di divintari casalingo e tornare a Marinella invece che in trattoria. Adelina un pasto al giorno glielo priparava, ma questo faciva nasciri un problema: se quel pasto se lo mangiava a mezzojorno, la sira doviva addubbare con tanticchia di cacio o aulive o sarde salate o salami; se viceversa se lo mangiava la sira, veniva a dire che a mezzojorno aviva addubbato con cacio, aulive, sarde salate, salami. A lungo andare, la cosa addivintava scunsulante. Si mise nuovamente a caccia. Un ristorante bono l’attrovò nei paraggi di capo Russello. Stava proprio sulla spiaggia, le pietanze erano cosa civile e non si pagava
assà. Il problema era che tra andare, mangiare e tornare ci volevano minimo minimo tri ori e lui tutto questo tempo non sempre ce l’aviva”. (Il giro di boa, pp. 78, 79)
Pietanze che risultano essere assolutamente indigeste per lo stomaco poi tutt’altro che delicato del nostro commissario. “Si era fatta l’ora di andare a mangiare. Sì, ma dove? La conferma che il suo mondo aveva cominciato ad andare a scatafascio il commissario l’aviva avuta appena una misata appresso il G8, quando alla fine di una mangiata di tutto rispetto, Calogero, il proprietario-coco-cammarer
‘Stai cugliunanno, Calò?’.
‘Nonsi, dottore. Come vossia sapi, io ho dù bipass e sittantatri anni sunati. U medicu non voli cchiù che continuo a travagliari’.
‘E io?!’ gli era scappato di dire a Montalbano. Di colpo si era sentito infilici come un pirsonaggio dei romanzi popolari, la sedotta e abbandonata cacciata fora di casa col figlio della colpa in grembo, la piccola fiammiferaia sotto la neve, l’orfano che cerca nella munnizza qualichi cosa da mangiari…
Calogero, a risposta, aviva allargato le vrazza sconsolato. E doppo era arrivato il tirribili jorno nel quale Calogero gli aviva sussurrato:
‘Dumani nun vinissi. È chiuso’.
Si erano abbrazzati quasi chiangenno. Ed era principiata la viacruci. Tra ristoranti, trattorie, osterie ne provò, nei giorni appresso, una mezza duzzina, ma non erano cosa.
Non che, in cuscienza, si poteva diri che cucinavano mali, il fatto era che a tutti gli mancava l’indefinibile tocco dei piatti di Calogero. Per un certo periodo, addecise di divintari casalingo e tornare a Marinella invece che in trattoria. Adelina un pasto al giorno glielo priparava, ma questo faciva nasciri un problema: se quel pasto se lo mangiava a mezzojorno, la sira doviva addubbare con tanticchia di cacio o aulive o sarde salate o salami; se viceversa se lo mangiava la sira, veniva a dire che a mezzojorno aviva addubbato con cacio, aulive, sarde salate, salami. A lungo andare, la cosa addivintava scunsulante. Si mise nuovamente a caccia. Un ristorante bono l’attrovò nei paraggi di capo Russello. Stava proprio sulla spiaggia, le pietanze erano cosa civile e non si pagava
assà. Il problema era che tra andare, mangiare e tornare ci volevano minimo minimo tri ori e lui tutto questo tempo non sempre ce l’aviva”. (Il giro di boa, pp. 78, 79)
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