Joan Miró - Il Sole rosso
La luce del mondo – Derwk Walcott
e una bellezza cantava i ritornelli sottovoce.
Vedevo dove le luci sui piani delle sue guance
le stravano e le definivano; fosse stato un ritratto
le lummeggiature andavano per ultime, in quelle luci
la sua pelle nera era seta; avrei aggiunto un orecchino,
qualcosa di semplice, d’oro, per fare contrasto, ma lei
non portava gioielli. Immaginai che emanasse l’odore
dolce e intenso di una pantera acquattata,
e la testa era niente meno che araldica.
Quando mi guardò, e poi si voltò in modo educato
perché fissare un estraneo è sgarbato,
era come una statua, come una nera Libertà
che guida il popolo di Delacroix, il bianco degli occhi
leggermente sporgente, la bocca intagliata,
il busto scolpito, e il busto di una donna,
ma lentamente anche quello svanì nel crepuscolo,
lasciando solo il profilo e gli zigomi lumeggiati,
e pensai. O Bellezza, sei la luce del mondo!
Non fu l’unica volta che pensai quella frase
nel pulmino a sedici posti che sfrecciava
tra Gros-Islet e il Mercato, con la sua ghia ietta di carbone
e i resti di verdura dopo le vendite del sabato,
e i rum shop rumorosi, dove fuori da porte sgargianti
vedi donne ubriache distese per terra, la cosa più triste,
accese poi spente nel loro fine settimana.
Il Mercato, mentre chiudeva quel sabato sera,
ricordava un’infanzia di lanterne a gas itineranti
appese ai lampioni agli angoli delle strade, e il vecchio clamore
dei venditori e del traffico, quando il lampionaio saliva,
appendeva la lanterna a un palo, poi passava a un altro,
e i bambini si voltavano verso la sua falena, gli occhi
bianchi come le loro camicie da notte; il Mercato
invece era chiuso nel suo buio involuto
e le ombre litigavano per il pane dentro i negozi
o litigavano per l’usanza formale di litigare
nei rum shop elettrici. Ricordo le ombre.
Il pulmino iniziava a riempirsi nella rimessa quasi buia.
Mi sedetti davanti, non avevo bisogno di tempo.
Guardai due ragazze, una col body giallo,
calzoncini gialli e un fiore tra i capelli
e la desiderai in pace, l’altra meno interessante.
Quella sera avevo camminato per le strade del paese
dove sono nato e cresciuto, pensando a mia madre
coi suoi capelli bianchi tinti dal crepuscolo
e le casupole inclinate che sembravano perverse
nella loro paralisi; avevo sbirciato nei salotti
con le gelosie socchiuse, i mobili scuri,
le sedie Morris, un centrino coi fiori di cera
e la litografia del Sacro Cuore di Gesù,
gli ambulanti che vendevano ancora alle strade deserte –
dolci, noci, cioccolatini molli, torti di noci, mentine.
Un’anziana col cappello di paglia sopra il fazzoletto
arrancava verso di noi con una cesta;
chissà dove, c’era una cesta più pesante
che non riusciva a trasportare. Era nel panico.
Disse al conducente: “Pas quittez moi à terre”,
che nel suo patois vuol dire: “Non lasciarmi qui”,
che, nella sua storia e in quella della sua gente, significa:
“Non lasciarmi a terra”, o, spostando l’accento:
“Non lasciarmi la terra” [in eredità];
“Pas quittez moi à terre, Pulmino Celeste,
Non lasciarmi a terra, ne ho avuto abbastanza”.
Nel buio il pulmino si riempì di ombre pesanti
che non sarebbero rimaste a terra; no, che sarebbero
rimaste sulla terra e avrebbero dovuto cavarsela.
L’abbandono era qualcosa a cui erano abituati.
E io li avevo abbandonati, lo capii in quel momento
seduto nel pulmino, nel crepuscolo calmo come il mare,
con uomini curvi nelle canoe, e le luci arancioni
del promontorio a Vigie, le barche nere sull’acqua,
io, che non ho mai potuto solidificare la mia ombra
per essere un’ombra delle loro, gli avevo lasciato la loro terra,
i loro litigi da rum bianco, i loro sacchi di carbone,
il loro odio per i caporali, per qualsiasi autorità.
Ero innamorato perso della donna al finestrino.
Avrei voluto andare a casa con lei quella sera.
Avrei voluto che avesse le chiavi della nostra casetta
sulla spiaggia a Gros-Islet; avrei voluto che si mettesse
una camicia da notte di raso, cascante come acqua
sulle rocce nere dei suoi seni, soltanto stare sdraiato
al suo fianco nel cerchio di una lampada d’ottone
con lo stoppino a cherosene, e dirle in silenzio
che la sua chioma era un colle nella foresta di notte,
che lo sgocciolio di un fiume era nelle sue ascelle,
che le avrei comprato il Benin se l’avesse voluto,
e non l’avrei mai lasciata a terra. Ma neanche gli altri.
Provavo un amore che poteva portarmi alle lacrime,
una pietà che mi pungeva gli occhi come un’ortica,
ebbi paura di scoppiare d’un tratto in singhiozzi,
lì sul pulmino con la canzone di Marley che andava,
e un ragazzino che si sporgeva a guardare, da dietro le spalle
del conducente e le mie, le luci che venivano incontro,
la corsa della strada nell’oscurità di campagna,
con le lampade nelle case sui colli più bassi,
e i boschetti di stelle; li avevo abbandonati,
li avevo lasciati a terra, li avevo lasciati a cantare
le canzoni di Marley di una tristezza vera quanto l’odore
di pioggia sulla terra riarsa, o della sabbia bagnata,
e nel bus sentivi il calore della loro socievolezza,
del loro rispetto, e dei loro commiati cortesi
nella luce dei fari. Nel chiasso, nei colpi
sordi e nei singulti della musica, nell’odore assertivo
che emanava dai corpi. Volevo che il nostro pulmino
proseguisse per sempre, che nessuno scendesse
e augurasse la buonanotte nella luce dei fari
e prendesse il sentiero tortuoso fino alla porta di casa,
guidato dalle lucciole; volevo che la bellezza
di quella donna entrasse nel calore di un legno premuroso,
nel tintinnio confortevole di piatti smaltati
in cucina, e l’albero in cortile, ma arrivai
alla mia fermata. Davanti all’Halcyon Hotel.
La hall sarebbe stata piena di gente di passaggio, come me.
Poi avrei camminato con la risacca lungo la spiaggia.
Scesi dal pulmino senza dire buonanotte.
Un buonanotte sarebbe stato pieno di amore inesprimibile.
Proseguirono sul loro pulmino, mi lasciarono a terra.
Poi, qualche metro più in là, il pulmino si fermò.
Un uomo urlò il mio nome dal finestrino.
Lo raggiunsi. Mi porsero qualcosa.
Un pacchetto di sigarette mi era caduto di tasca.
Me lo diede. Mi voltai, nascondendo le lacrime.
Non volevano niente, e non avevo niente da dargli
Tranne questa cosa che ho chiamato “Luce del mondo”.
da Derek Walcott, Nelle vene del mare, a cura di Matteo Campagnoli
Corriere delle Sera - Un secolo di poesia, a cura di Nicola Crocetti
Kaya now, got toh ave kaya nowMarley impazzava dallo stereo del pulmino
Got to have Kaya now,
For the rain is falling.
BOB MARLEY
e una bellezza cantava i ritornelli sottovoce.
Vedevo dove le luci sui piani delle sue guance
le stravano e le definivano; fosse stato un ritratto
le lummeggiature andavano per ultime, in quelle luci
la sua pelle nera era seta; avrei aggiunto un orecchino,
qualcosa di semplice, d’oro, per fare contrasto, ma lei
non portava gioielli. Immaginai che emanasse l’odore
dolce e intenso di una pantera acquattata,
e la testa era niente meno che araldica.
Quando mi guardò, e poi si voltò in modo educato
perché fissare un estraneo è sgarbato,
era come una statua, come una nera Libertà
che guida il popolo di Delacroix, il bianco degli occhi
leggermente sporgente, la bocca intagliata,
il busto scolpito, e il busto di una donna,
ma lentamente anche quello svanì nel crepuscolo,
lasciando solo il profilo e gli zigomi lumeggiati,
e pensai. O Bellezza, sei la luce del mondo!
Non fu l’unica volta che pensai quella frase
nel pulmino a sedici posti che sfrecciava
tra Gros-Islet e il Mercato, con la sua ghia ietta di carbone
e i resti di verdura dopo le vendite del sabato,
e i rum shop rumorosi, dove fuori da porte sgargianti
vedi donne ubriache distese per terra, la cosa più triste,
accese poi spente nel loro fine settimana.
Il Mercato, mentre chiudeva quel sabato sera,
ricordava un’infanzia di lanterne a gas itineranti
appese ai lampioni agli angoli delle strade, e il vecchio clamore
dei venditori e del traffico, quando il lampionaio saliva,
appendeva la lanterna a un palo, poi passava a un altro,
e i bambini si voltavano verso la sua falena, gli occhi
bianchi come le loro camicie da notte; il Mercato
invece era chiuso nel suo buio involuto
e le ombre litigavano per il pane dentro i negozi
o litigavano per l’usanza formale di litigare
nei rum shop elettrici. Ricordo le ombre.
Il pulmino iniziava a riempirsi nella rimessa quasi buia.
Mi sedetti davanti, non avevo bisogno di tempo.
Guardai due ragazze, una col body giallo,
calzoncini gialli e un fiore tra i capelli
e la desiderai in pace, l’altra meno interessante.
Quella sera avevo camminato per le strade del paese
dove sono nato e cresciuto, pensando a mia madre
coi suoi capelli bianchi tinti dal crepuscolo
e le casupole inclinate che sembravano perverse
nella loro paralisi; avevo sbirciato nei salotti
con le gelosie socchiuse, i mobili scuri,
le sedie Morris, un centrino coi fiori di cera
e la litografia del Sacro Cuore di Gesù,
gli ambulanti che vendevano ancora alle strade deserte –
dolci, noci, cioccolatini molli, torti di noci, mentine.
Un’anziana col cappello di paglia sopra il fazzoletto
arrancava verso di noi con una cesta;
chissà dove, c’era una cesta più pesante
che non riusciva a trasportare. Era nel panico.
Disse al conducente: “Pas quittez moi à terre”,
che nel suo patois vuol dire: “Non lasciarmi qui”,
che, nella sua storia e in quella della sua gente, significa:
“Non lasciarmi a terra”, o, spostando l’accento:
“Non lasciarmi la terra” [in eredità];
“Pas quittez moi à terre, Pulmino Celeste,
Non lasciarmi a terra, ne ho avuto abbastanza”.
Nel buio il pulmino si riempì di ombre pesanti
che non sarebbero rimaste a terra; no, che sarebbero
rimaste sulla terra e avrebbero dovuto cavarsela.
L’abbandono era qualcosa a cui erano abituati.
E io li avevo abbandonati, lo capii in quel momento
seduto nel pulmino, nel crepuscolo calmo come il mare,
con uomini curvi nelle canoe, e le luci arancioni
del promontorio a Vigie, le barche nere sull’acqua,
io, che non ho mai potuto solidificare la mia ombra
per essere un’ombra delle loro, gli avevo lasciato la loro terra,
i loro litigi da rum bianco, i loro sacchi di carbone,
il loro odio per i caporali, per qualsiasi autorità.
Ero innamorato perso della donna al finestrino.
Avrei voluto andare a casa con lei quella sera.
Avrei voluto che avesse le chiavi della nostra casetta
sulla spiaggia a Gros-Islet; avrei voluto che si mettesse
una camicia da notte di raso, cascante come acqua
sulle rocce nere dei suoi seni, soltanto stare sdraiato
al suo fianco nel cerchio di una lampada d’ottone
con lo stoppino a cherosene, e dirle in silenzio
che la sua chioma era un colle nella foresta di notte,
che lo sgocciolio di un fiume era nelle sue ascelle,
che le avrei comprato il Benin se l’avesse voluto,
e non l’avrei mai lasciata a terra. Ma neanche gli altri.
Provavo un amore che poteva portarmi alle lacrime,
una pietà che mi pungeva gli occhi come un’ortica,
ebbi paura di scoppiare d’un tratto in singhiozzi,
lì sul pulmino con la canzone di Marley che andava,
e un ragazzino che si sporgeva a guardare, da dietro le spalle
del conducente e le mie, le luci che venivano incontro,
la corsa della strada nell’oscurità di campagna,
con le lampade nelle case sui colli più bassi,
e i boschetti di stelle; li avevo abbandonati,
li avevo lasciati a terra, li avevo lasciati a cantare
le canzoni di Marley di una tristezza vera quanto l’odore
di pioggia sulla terra riarsa, o della sabbia bagnata,
e nel bus sentivi il calore della loro socievolezza,
del loro rispetto, e dei loro commiati cortesi
nella luce dei fari. Nel chiasso, nei colpi
sordi e nei singulti della musica, nell’odore assertivo
che emanava dai corpi. Volevo che il nostro pulmino
proseguisse per sempre, che nessuno scendesse
e augurasse la buonanotte nella luce dei fari
e prendesse il sentiero tortuoso fino alla porta di casa,
guidato dalle lucciole; volevo che la bellezza
di quella donna entrasse nel calore di un legno premuroso,
nel tintinnio confortevole di piatti smaltati
in cucina, e l’albero in cortile, ma arrivai
alla mia fermata. Davanti all’Halcyon Hotel.
La hall sarebbe stata piena di gente di passaggio, come me.
Poi avrei camminato con la risacca lungo la spiaggia.
Scesi dal pulmino senza dire buonanotte.
Un buonanotte sarebbe stato pieno di amore inesprimibile.
Proseguirono sul loro pulmino, mi lasciarono a terra.
Poi, qualche metro più in là, il pulmino si fermò.
Un uomo urlò il mio nome dal finestrino.
Lo raggiunsi. Mi porsero qualcosa.
Un pacchetto di sigarette mi era caduto di tasca.
Me lo diede. Mi voltai, nascondendo le lacrime.
Non volevano niente, e non avevo niente da dargli
Tranne questa cosa che ho chiamato “Luce del mondo”.
da Derek Walcott, Nelle vene del mare, a cura di Matteo Campagnoli
Corriere delle Sera - Un secolo di poesia, a cura di Nicola Crocetti
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