Pagine

5 dicembre 2018

L’uomo che amava le isole – Derek Walcott

dipinto di Aldo Balding
L’uomo che amava le isole – Derek Walcott

UN SOGGETTO DI DUE PAGINE

Un uomo si appoggia a una ringhiera di ferro,
guarda un isolotto da un isola eccetera,
diciamo, Charlotte Amalie di fronte a St John,
il che pone inizio al concetto d’infinito
ininterrotto da vele mortali, sono l’esile spettro
di una petroliera che traina l’orizzonte
con una bava argentea da lumaca,
e ci siamo con la prima inquadratura
di questo fil imminente interpretato
da James Coburn e dalla sua fragile, coriacea e abbronzata
resilienza, i suoi capelli ormai bianchi,
e il suo ghigno bianco e cattivo. Dove eravamo?
Su quest’isola, una delle Vergini, il protagonista
ce l’abbiamo. Ora arriva la seconda inquadratura,
e quel casino di espedienti ancora chiamato trama,
che deve portare l’eroe da qualche parte,
perché nessuno si esalta alla contemplazione
della luce argentata sull’acqua intimorita dal vento
tra qui e l’isolotto di St. John, e
a vederle collegate come la catenella d’argento
che luccica sul petto coriaceo dell’eroe,
le vendono al duty-free, come acqua accesa dal mezzogiorno.
La pausa momentanea dell’eroe alla ringhiera
può essere un buon inizio. Iniziare
con una pausa va sempre bene – la petroliera
può aspettare. Ma non possiamo chiamarlo
“L’uomo che ama le isole”, sarebbe come pensare
di riempire la sala con un film di karate zen
intitolato “L’eroe che ama l’acqua”.
Niente da fare. Ci vuole qualcosa coi diamanti,
smeraldi, smeraldi del colore della secca là
fuori, o zaffiri come aria azzurri senza ambiguità,
zaffiri per Sophia, ma lì ci arriviamo più avanti.
Coburn sta da dio con o senza cappello,
e ci vuole un minimo di carneficina, un macello
che introduca i rubini, ma non possiamo indugiare
sulla prima inquadratura, come un quadro.
L’azione nell’arte è tutto, quel modo strafottente
di mentire con stile, cos’, in fin dei conti,
quell’inquadratura magnifica della faccia coriacea di Coburn,
raggrinzita come l’acqua che contempla,
può anche essere superflua, tanto per iniziare,
visto che quell’artificio stanco chiamato storia,
falso nell’intreccio come qualsiasi racconto,
richiede una traccia, una sintesi. A essere sinceri,
non me ne viene nessuna. Non sono un fotografo;
ma questo può essere un film. Voglio dire,
le cose si muovono, l’acqua ad esempio, la luce stanca
sui capelli dell’uomo, che ormai sono bianchi,
persino quelle mezzelune di sabbia si muovono
e commuovono come il suo amore per le isole;
e anche la petroliera che sembra ferma si muove,
e le nuvole come galeoni ancorati in paradiso,
e quello che si muove e commuove di più, chiaro,
è l’uomo violento acquietato in quest’inazione
dall’enormità del mare. Bene, fermiamoci sul mare,
intanto che stabiliamo la loro antica interazione,
un’allusione omerica, un tocco di poesia,
prima che scoppi il bordello. Quelle isole che ami,
giuro, te le infiliamo dentro come sfondo,
con delle belle inquadrature dalla macchina di Jim e
persino un paio di porti e di villaggi, se
riusciamo a far esplodere la petroliera e a tenere alte
le fiamme con benzina, e Sophia, se è libera,
un po’ scompigliata, la sottoveste un po’ strappata,
scende da questa scala di corda, inquadriamo di sotto,
dal pdv di Coburn – le gemme ce le ha lui – ed è qui
che ci buttiamo dentro Charlotte Amalie
e il bar del lungomare, e questa stradina danese
coi cattivi che s’inseguono, e possiamo tenere tutta
la faccenda di Jim alla ringhiera; quella roba lirica
va coi titoli di coda se insisti a buttarla sul sentimentale;
la vedo già, ma le cose qui devono farsi cazzute
piuttosto in fretta, altrimenti quelli li perdi, amico,
anzi, sai cosa ti dico, teniamola per la FINE.

da Derek Walcott, Nelle vene del mare, a cura di Matteo Campagnoli
Corriere delle Sera - Un secolo di poesia, a cura di Nicola Crocetti

Nessun commento:

Posta un commento