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10 gennaio 2019

da L’indovino – Pandelis Bukalas

Pippo Rizzo - città futurista, 1929
da L’indovino – Pandelis Bukalas

Molte profezie mi recarono gli uccelli. Loro cinguettavano oppure cominciavano a parlare con voce umana quando dentro di loro maturava la morte, e il mio straordinario udito carpiva la parola del futuro. E così non avevo spesso bisogno come gli altri artigiani del vaticinio che anelavano a conoscere il presente, il futuro e il passato, di studiare i segni divini, il volo degli uccelli, il tempestivo fragore del tuono, il libero volteggiare del fumo che con gioia sacrifica le forme di vento che compone, le profondità dei sogni fittamente abitate, la sanguigna geografia dei visceri, lo sgorgare della acque che portano in superficie i segreti sotterranei. Lingua sacra, questa, che penetra per un poco l’enigma della volontà divina per rubare l’inafferrabile segreto, ed esce sempre con fame insaziata; sacra lei che anela all’impenetrabile e articola il fatale, lei che estorce il non accaduto e svela la perduta interpretazione di ciò che si è compiuto. Ma più sacra, anche se la mia anima e la mia arte non concordano, la lingua che pone l’uomo di fronte alla sua sorte, non suo schiavo o zimbello, la lingua che s’innamora e guizzanti sull’altrui palato sillaba astri infuocati, la lingua che parla il tangibile e ciò che si rallegra della sua esistenza nella luce, ciò che trasmette, ciò che offre i sentimenti, e non l’inevitabile senso che si è compiuto altrove e si impone asfittico. Ma devo ritornare alla mia arte, che non mi cancelli anche la seconda vista il piacere di combattere gli dèi perfino per i loro doni.

Traduzione di Massimo Cazzulo
Da “Poesia” n. 298, novembre 2014. Crocetti Editore

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