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12 gennaio 2019

da “I Paradisi Artificiali” – Charles Baudelaire

da “I Paradisi Artificiali” – Charles Baudelaire

Nel 1818, il Malese, di cui abbiamo parlato, lo tormentava crudelmente; era un visitatore insopportabile. Come lo spazio, come il tempo, il Malese si era moltiplicato. Il Malese era diventato l'Asia stessa; l'Asia antica, solenne, mostruosa e complicata come i suoi templi e le sue religioni; in cui ogni cosa, dagli aspetti più ordinari della vita, fino ai ricordi classici e maestosi che implica, è fatta per confondere e stupire la mente di un Europeo. E non si trattava solodella Cina, bizzarra e artificiale, prodigiosa e vecchiotta come un racconto di fate, che tiranneggiava il suo cervello. Quell'immagine evocava naturalmente l'immagine contigua dell'India, così misteriosa e inquietante per uno spirito dell'Occidente; e inoltre Cina e India formavano in un baleno con l'Egitto una triade minacciosa, un incubo complicato, dalle svariate angosce. Insomma, il Malese aveva evocato tutto l'immenso e favoloso Oriente. Le pagine che seguono sono troppo belle per essere riassunte: «Ogni notte ero trasportato da quest'uomo in mezzo a scenari asiatici. Non so se altre persone condividono i miei sentimenti su questo punto; ma ho spesso pensato che se fossi costretto ad abbandonare forzatamente l'Inghilterra, e a vivere in Cina, tra gli usi, le regole di vita e gli ambienti della vita cinese, impazzirei. Le cause del mio orrore sono profonde, e alcune devono essere condivisibili da altri uomini. L'Asia meridionale è generalmente sede di immagini atroci e di temibili associazioni di idee; non fosse altro che come culla del genere umano, deve emanare non so quale vaga sensazione di spavento e di rispetto. Ma esistono altre ragioni. Nessuno pretenderà che le strane, barbare e capricciose superstizioni dell'Africa, o delle tribù selvagge di qualsiasi altra contrada, possano colpirlo allo stesso modo delle antiche, monumentali e complesse religioni dell'Indostan. L'antichità delle cose asiatiche, delle istituzioni degli annali, dei modi della fede, possiede ai miei occhi qualcosa di così sbalorditivo, l'antichità della razza e dei nomi, qualcosa di così sovrano, che basta ad annientare la gioventù dell'individuo. Un giovane Cinese mi appare come un uomo antidiluviano rigenerato. Gli stessi Inglesi, benché non siano stati allevati nella conoscenza di tali istituzioni, non possono impedirsi di fremere di fronte alla mistica sublimità di quelle caste, che hanno seguito ciascuna un suo corso, e hanno rifiutato di mescolare le loro acque fin dalla notte dei tempi. Non c'è nessuno che non provi rispetto per i nomi del Gange e dell'Eufrate. Accresce di molto questi sentimenti il fatto che
l'Asia meridionale è ed è stata, da migliaia d'anni, l'angolo di mondo più brulicante di vita umana, la grande officina gentium. L'uomo, in queste contrade, cresce come l'erba. I vasti imperi, nei quali è stata modellata da sempre l'enorme popolazione dell'Asia, aggiungono una grandezza in più ai sentimenti che le immagini e i nomi orientali comportano. In Cina soprattutto, tralasciando ciò che vi è in comune col resto dell'Asia meridionale, sono terrificato dalle regole di vita, dagli usi, da un'assoluta ripugnanza, da una barriera di sentimenti che ci separano da lei e che sono troppo profondi per essere analizzati. Troverei più facile vivere con dei lunatici o dei bruti. Occorre che il lettore penetri in tutte queste idee e in altre ancora, che non posso dire o non ho il tempo di esprimere, per capire tutto l'orrore che questi sogni di iconografia orientale e di torture mitologiche stampavano nella mia mente.

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