dipinto di Walter Gay
Mi ero perduta in questi pensieri senza accorgermene, tra un sorso di caffè e un boccone di pane alle noci.
Era stata la combinazione tra il tavolo di cucina e la luce del mattino a farmi pensare alla famiglia, credo. “Su, Yoshio, adesso mettiti a letto, o ti salirà la febbre,” disse la mamma spingendo mio fratello verso la sua stanza. “Ma è vero che è arrivato un pacco?” chiesi.
La mamma nel chiudere la porta si girò verso di me: “Sì, è nell’ingresso”.
Mi alzai e andai a vedere.
Lì, sul parquet di legno grezzo inondato dal sole, spiccava una grande scatola verticale di cartone bianco come una scultura astratta. Dapprima pensai che contenesse dei fiori. Ma quando provai a sollevarla mi accorsi che era molto pesante. Sulla targhetta con il mittente lessi il nome, Yamazaki Ryùichirò, e l’indirizzo di un ryokan di Chiba, evidentemente la tappa di un viaggio.
Impaziente di vedere cosa fosse, cominciai ad aprirlo lì nell’ingresso, facendo a pezzi il cartone. Dentro, nemmeno un biglietto. C’era invece, strettamente impacchettata nel cellophane, la statua di un cane, lo stesso del vecchio logo della Vìctor. Attraverso l’involucro trasparente già comunicava un senso di tenerezza, ma una volta strappato delicatamente il cellophane fu una vera apparizione, come un oggetto emerso dal fondo del mare.
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