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14 marzo 2019

Orlando Furioso. Canto XXXIX – Ludovico Ariosto

Tiziano Vecellio - La bella, 1536, olio su tela
Orlando Furioso. Canto XXXIX – Ludovico Ariosto

O degli uomini inferma e instabil mente!
come siàn presti a variar disegno!
Tutti i pensier mutamo facilmente,
più quei che nascon d’amoroso sdegno.
Io vidi dianzi il Saracin sì ardente
contra le donne, e passar tanto il segno,
che non che spegner l’odio, ma pensai
che non dovesse intiepidirlo mai.

Donne gentil, per quel ch’a biasmo vostro
parlò contra il dover, sì offeso sono,
che sin che col suo mal non gli dimostro
quanto abbia fatto error, non gli perdono.
Io farò sì con penna e con inchiostro,
ch’ognun vedrà che gli era utile e buono
aver taciuto, e mordersi anco poi
prima la lingua, che dir mal di voi.

Ma che parlò come ignorante e sciocco,
ve lo dimostra chiara esperienza.
Incontra tutte trasse fuor lo stocco
de l’ira, senza farvi differenza:
poi d’Issabella un sguardo sì l’ha tocco,
che subito gli fa mutar sentenza.
Già in cambio di quell’altra la disia,
l’ha vista a pena, e non sa ancor chi sia.

E come il nuovo amor lo punge e scalda,
muove alcune ragion di poco frutto,
per romper quella mente intera e salda
ch’ella avea fissa al Creator del tutto.
Ma l’eremita che l’è scudo e falda,
perché il casto pensier non sia distrutto,
con argumenti più validi e fermi,
quanto più può, le fa ripari e schermi.

Poi che l’empio pagan molto ha sofferto
con lunga noia quel monaco audace,
e che gli ha detto invan ch’al suo deserto
senza lei può tornar quando gli piace;
e che nuocer si vede a viso aperto,
e che seco non vuol triegua né pace:
la mano al mento con furor gli stese,
e tanto ne pelò, quanto ne prese.

E sì crebbe la furia, che nel collo
con man lo stringe a guisa di tanaglia;
e poi ch’una e due volte raggirollo,
da sé per l’aria e verso il mar lo scaglia.
Che n’avenisse, né dico né sollo:
varia fama è di lui, né si raguaglia.
Dice alcun che sì rotto a un sasso resta,
che ’l piè non si discerne da la testa;

ed altri, ch’a cadere andò nel mare,
ch’era più di tre miglia indi lontano,
e che morì per non saper notare,
fatti assai prieghi e orazioni invano;
altri, ch’un santo lo venne aiutare,
lo trasse al lito con visibil mano.
Di queste, qual si vuol, la vera sia:
di lui non parla più l’istoria mia.

Rodomonte crudel, poi che levato
s’ebbe da canto il garrulo eremita,
si ritornò con viso men turbato
verso la donna mesta e sbigottita;
e col parlar ch’è fra gli amanti usato,
dicea ch’era il suo core e la sua vita
e ’l suo conforto e la sua cara speme,
ed altri nomi tai che vanno insieme.

E si mostrò sì costumato allora,
che non le fece alcun segno di forza.
Il sembiante gentil che l’innamora,
l’usato orgoglio in lui spegne ed ammorza:
e ben che ’l frutto trar ne possa fuora,
passar non però vuole oltre a la scorza;
che non gli par che potesse esser buono,
quando da lei non lo accettasse in dono.

E così di disporre a poco a poco
a’ suoi piaceri Issabella credea.
Ella, che in sì solingo e strano loco,
qual topo in piede al gatto si vedea,
vorria trovarsi inanzi in mezzo il fuoco;
e seco tuttavolta rivolgea
s’alcun partito, alcuna via fosse atta
a trarla quindi immaculata e intatta.

Fa ne l’animo suo proponimento
di darsi con sua man prima la morte,
che ’l barbaro crudel n’abbia il suo intento,
e che le sia cagion d’errar sì forte
contra quel cavallier ch’in braccio spento
l’avea crudele e dispietata sorte;
a cui fatto have col pensier devoto
de la sua castità perpetuo voto.

Crescer più sempre l’appetito cieco
vede del re pagan, né sa che farsi.
Ben sa che vuol venire all’atto bieco,
ove i contrasti suoi tutti fien scarsi.
Pur discorrendo molte cose seco,
il modo trovò al fin di ripararsi,
e di salvar la castità sua, come
io vi dirò, con lungo e chiaro nome.

Al brutto Saracin, che le venìa
già contra con parole e con effetti
privi di tutta quella cortesia
che mostrata le avea ne’ primi detti:
- Se fate che con voi sicura io sia
del mio onor (disse) e ch’io non ne sospetti,
cosa all’incontro vi darò, che molto
più vi varrà, ch’avermi l’onor tolto.

Per un piacer di sì poco momento,
di che n’ha sì abondanza tutto ’l mondo,
non disprezzate un perpetuo contento,
un vero gaudio a nullo altro secondo.
Potrete tuttavia ritrovar cento
e mille donne di viso giocondo;
ma chi vi possa dar questo mio dono,
nessuno al mondo, o pochi altri ci sono.

Ho notizia d’un’erba, e l’ho veduta
venendo, e so dove trovarne appresso,
che bollita con elera e con ruta
ad un fuoco di legna di cipresso,
e fra mano innocenti indi premuta,
manda un liquor, che, chi si bagna d’esso
tre volte il corpo, in tal modo l’indura,
che dal ferro e dal fuoco l’assicura.

Io dico, se tre volte se n’immolla,
un mese invulnerabile si trova.
Oprar conviensi ogni mese l’ampolla;
che sua virtù più termine non giova.
Io so far l’acqua, ed oggi ancor farolla,
ed oggi ancor voi ne vedrete prova:
e vi può, s’io non fallo, esser più grata,
che d’aver tutta Europa oggi acquistata.

Da voi domando in guiderdon di questo,
che su la fede vostra mi giuriate
che né in detto né in opera molesto
mai più sarete alla mia castitate. -
Così dicendo, Rodomonte onesto
fe’ ritornar; ch’in tanta voluntate
venne ch’inviolabil si facesse,
che più ch’ella non disse, le promesse:

e servaralle fin che vegga fatto
de la mirabil acqua esperienza;
e sforzerasse intanto a non fare atto,
a non far segno alcun di violenza.
Ma pensa poi di non tenere il patto,
perché non ha timor né riverenza
di Dio o di santi; e nel mancar di fede
tutta a lui la bugiarda Africa cede.

Ad Issabella il re d’Algier scongiuri
di non la molestar fe’ più di mille,
pur ch’essa lavorar l’acqua procuri,
che far lo può qual fu già Cigno e Achille.
Ella per balze e per valloni oscuri
da le città lontana e da le ville
ricoglie di molte erbe; e il Saracino
non l’abandona, e l’è sempre vicino.

Poi ch’in più parti quant’era a bastanza
colson de l’erbe e con radici e senza,
tardi si ritornaro alla lor stanza;
dove quel paragon di continenza
tutta la notte spende, che l’avanza,
a bollir erbe con molta avertenza:
e a tutta l’opra e a tutti quei misteri
si trova ognor presente il re d’Algieri.

Che producendo quella notte in giuoco
con quelli pochi servi ch’eran seco,
sentia, per lo calor del vicin fuoco
ch’era rinchiuso in quello angusto speco,
tal sete, che bevendo or molto or poco,
duo baril votar pieni di greco,
ch’aveano tolto uno o duo giorni inanti
i suoi scudieri a certi viandanti.

Non era Rodomonte usato al vino,
perché la legge sua lo vieta e danna:
e poi che lo gustò, liquor divino
gli par, miglior che ’l nettare o la manna;
e riprendendo il rito saracino,
gran tazze e pieni fiaschi ne tracanna.
Fece il buon vino, ch’andò spesso intorno,
girare il capo a tutti come un torno.

La donna in questo mezzo la caldaia
dal fuoco tolse, ove quell’erbe cosse;
e disse a Rodomonte: - Acciò che paia
che mie parole al vento non ho mosse,
quella che ’l ver da la bugia dispaia,
e che può dotte far le genti grosse,
te ne farò l’esperienza ancora,
non ne l’altrui, ma nel mio corpo or ora.

Io voglio a far il saggio esser la prima
del felice liquor di virtù pieno,
acciò tu forse non facessi stima
che ci fosse mortifero veneno.
Di questo bagnerommi da la cima
del capo giù pel collo e per lo seno:
tu poi tua forza in me prova e tua spada,
se questo abbia vigor, se quella rada.-

Bagnossi, come disse, e lieta porse
all’incauto pagano il collo ignudo,
incauto, e vinto anco dal vino forse,
incontra a cui non vale elmo né scudo.
Quel uom bestial le prestò fede, e scorse
sì con la mano e sì col ferro crudo,
che del bel capo, già d’Amore albergo,
fe’ tronco rimanere il petto e il tergo.

Quel fe’ tre balzi; e funne udita chiara
voce, ch’uscendo nominò Zerbino,
per cui seguire ella trovò sì rara
via di fuggir di man del Saracino.
Alma, ch’avesti più la fede cara,
e ’l nome quasi ignoto e peregrino
al tempo nostro, de la castitade,
che la tua vita e la tua verde etade,

vattene in pace, alma beata e bella!
Così i miei versi avesson forza, come
ben m’affaticherei con tutta quella
arte che tanto il parlar orna e come,
perché mille e mill’anni e più, novella
sentisse il mondo del tuo chiaro nome.
Vattene in pace alla superna sede,
e lascia all’altre esempio di tua fede.

All’atto incomparabile e stupendo,
dal cielo il Creator giù gli occhi volse,
e disse: - Più di quella ti commendo,
la cui morte a Tarquinio il regno tolse;
e per questo una legge fare intendo
tra quelle mie, che mai tempo non sciolse,
la qual per le inviolabil’acque giuro
che non muterà seculo futuro.

Per l’avvenir vo’ che ciascuna ch’aggia
il nome tuo, sia di sublime ingegno,
e sia bella, gentil, cortese e saggia,
e di vera onestade arrivi al segno:
onde materia agli scrittori caggia
di celebrare il nome inclito e degno;
tal che Parnasso, Pindo ed Elicone
sempre Issabella, Issabella risuone. -

Dio così disse, e fe’ serena intorno
l’aria, e tranquillo il mar più che mai fusse.
Fe’ l’alma casta al terzo ciel ritorno,
e in braccio al suo Zerbin si ricondusse.
Rimase in terra con vergogna e scorno
quel fier senza pietà nuovo Breusse;
che poi che ’l troppo vino ebbe digesto,
biasmò il suo errore, e ne restò funesto.

Placare o in parte satisfar pensosse
a l’anima beata d’Issabella,
se, poi ch’a morte il corpo le percosse,
desse almen vita alla memoria d’ella.
Trovò per mezzo, acciò che così fosse,
di convertirle quella chiesa, quella
dove abitava e dove ella fu uccisa,
in un sepolcro; e vi dirò in che guisa.

Di tutti i lochi intorno fa venire
mastri, chi per amore e chi per tema;
e fatto ben seimila uomini unire,
de’ gravi sassi i vicin monti scema,
e ne fa una gran massa stabilire,
che da la cima era alla parte estrema
novanta braccia; e vi rinchiude dentro
la chiesa, che i duo amanti have nel centro.

Imita quasi la superba mole
che fe’ Adriano all’onda tiberina.
Presso al sepolcro una torre alta vuole;
ch’abitarvi alcun tempo si destina.
Un ponte stretto e di due braccia sole
fece su l’acqua che correa vicina.
Lungo il ponte, ma largo era sì poco,
che dava a pena a duo cavalli loco;

a duo cavalli che venuti a paro,
o ch’insieme si fossero scontrati:
e non avea né sponda né riparo,
e si potea cader da tutti i lati.
Il passar quindi vuol che costi caro
a guerrieri o pagani o battezzati;
che de le spoglie lor mille trofei
promette al cimiterio di costei.

In dieci giorni e in manco fu perfetta
l’opra del ponticel che passa il fiume;
ma non fu già il sepolcro così in fretta,
né la torre condutta al suo cacume:
pur fu levata sì, ch’alla veletta
starvi in cima una guardia avea costume,
che d’ogni cavallier che venìa al ponte,
col corno facea segno a Rodomonte.

E quel s’armava, e se gli venìa a opporre
ora su l’una, ora su l’altra riva;
che se ’l guerrier venìa di vêr la torre,
su l’altra proda il re d’ Algier veniva.
Il ponticello è il campo ove si corre;
e se ’l destrier poco del segno usciva,
cadea nel fiume, ch’alto era e profondo:
ugual periglio a quel non avea il mondo.

Aveasi imaginato il Saracino,
che, per gir spesso a rischio di cadere
dal ponticel nel fiume a capo chino,
dove gli converria molt’acqua bere,
del fallo a che l’indusse il troppo vino,
dovesse netto e mondo rimanere;
come l’acqua, non men che ’l vino, estingua
l’error che fa pel vino o mano o lingua.

Molti fra pochi dì vi capitaro:
alcuni la via dritta vi condusse,
ch’a quei che verso Italia o Spagna andaro
altra non era che più trita fusse;
altri l’ardire, e, più che vita caro,
l’onore, a farvi di sé prova indusse.
E tutti, ove acquistar credean la palma,
lasciavan l’arme, e molti insieme l’alma.

Di quelli ch’abbattea, s’eran pagani,
si contentava d’aver spoglie ed armi;
e di chi prima furo, i nomi piani
vi facea sopra, e sospendeale ai marmi:
ma ritenea in prigion tutti i cristiani;
e che in Algier poi li mandasse parmi.
Finita ancor non era l’opra, quando
vi venne a capitare il pazzo Orlando.

A caso venne il furioso conte
a capitar su questa gran riviera,
dove, come io vi dico, Rodomonte
fare in fretta facea, né finito era
la torre né il sepolcro, e a pena il ponte:
e di tutte arme, fuor che di visiera,
a quell’ora il pagan si trovò in punto,
ch’Orlando al fiume e al ponte è sopragiunto.

Orlando (come il suo furor lo caccia)
salta la sbarra e sopra il ponte corre.
Ma Rodomonte con turbata faccia,
a piè, com’era inanzi a la gran torre,
gli grida di lontano e gli minaccia,
né se gli degna con la spada opporre:
Indiscreto villan, ferma le piante,
temerario, importuno ed arrogante!

Sol per signori e cavallieri è fatto
il ponte, non per te, bestia balorda. -
Orlando, ch’era in gran pensier distratto,
vien pur inanzi e fa l’orecchia sorda.
- Bisogna ch’io castighi questo matto -
disse il pagano; e con la voglia ingorda
venìa per traboccarlo giù ne l’onda,
non pensando trovar chi gli risponda.

In questo tempo una gentil donzella,
per passar sovra il ponte, al fiume arriva,
leggiadramente ornata e in viso bella,
e nei sembianti accortamente schiva.
Era (se vi ricorda, Signor) quella
che per ogni altra via cercando giva
di Brandimarte, il suo amator, vestigi,
fuor che, dove era, dentro da Parigi.

Ne l’arrivar di Fiordiligi al ponte
(che così la donzella nomata era),
Orlando s’attaccò con Rodomonte
che lo volea gittar ne la riviera.
La donna, ch’avea pratica del conte,
subito n’ebbe conoscenza vera:
e restò d’alta maraviglia piena,
de la follia che così nudo il mena.

Fermasi a riguardar che fine avere
debba il furor dei duo tanti possenti.
Per far del ponte l’un l’altro cadere
a por tutta lor forza sono intenti.
- Come è ch’un pazzo debba sì valere? -
seco il fiero pagan dice tra’ denti;
e qua e là si volge e si raggira,
pieno di sdegno e di superbia e d’ira.

46 Con l’una e l’altra man va ricercando
far nuova presa, ove il suo meglio vede;
or tra le gambe, or fuor gli pone, quando
con arte il destro, e quando il manco piede.
Simiglia Rodomonte intorno a Orlando
lo stolido orso che sveller si crede
l’arbor onde è caduto; e come n’abbia
quello ogni colpa, odio gli porta e rabbia.

Orlando, che l’ingegno avea sommerso,
io non so dove, e sol la forza usava,
l’estrema forza a cui per l’universo
nessuno o raro paragon si dava,
cader del ponte si lasciò riverso
col pagano abbracciato come stava.
Cadon nel fiume e vanno al fondo insieme:
ne salta in aria l’onda, e il lito geme.

L’acqua gli fece distaccare in fretta.
Orlando è nudo, e nuota com’un pesce:
di qua le braccia, e di là i piedi getta,
e viene a proda; e come di fuor esce,
correndo va, né per mirare aspetta,
se in biasmo o in loda questo gli riesce.
Ma il pagan, che da l’arme era impedito,
tornò più tardo e con più affanno al lito.

Sicuramente Fiordiligi intanto
avea passato il ponte e la riviera;
e guardato il sepolcro in ogni canto,
se del suo Brandimarte insegna v’era,
poi che né l’arme sue vede né il manto,
di ritrovarlo in altra parte spera.
Ma ritorniamo a ragionar del conte,
che lascia a dietro e torre e fiume e ponte.

Pazzia sarà, se le pazzie d’Orlando
prometto raccontarvi ad una ad una;
che tante e tante fur, ch’io non so quando
finir: ma ve n’andrò scegliendo alcuna
solenne ed atta da narrar cantando,
e ch’all’istoria mi parrà oportuna;
né quella tacerò miraculosa,
che fu nei Pirenei sopra Tolosa.

Trascorso avea molto paese il conte,
come dal grave suo furor fu spinto;
ed al fin capitò sopra quel monte
per cui dal Franco è il Tarracon distinto;
tenendo tuttavia volta la fronte
verso là dove il sol ne viene estinto:
e quivi giunse in uno angusto calle,
che pendea sopra una profonda valle.

Si vennero a incontrar con esso al varco
duo boscherecci gioveni, ch’inante
avean di legna un loro asino carco;
e perché ben s’accorsero al sembiante,
ch’avea di cervel sano il capo scarco,
gli gridano con voce minacciante,
o ch’a dietro o da parte se ne vada,
e che si levi di mezzo la strada.

Orlando non risponde altro a quel detto,
se non che con furor tira d’un piede,
e giunge a punto l’asino nel petto
con quella forza che tutte altre eccede;
ed alto il leva, sì, ch’uno augelletto
che voli in aria, sembra a chi lo vede.
Quel va a cadere alla cima d’un colle,
ch’un miglio oltre la valle il giogo estolle.

Indi verso i duo gioveni s’aventa,
dei quali un, più che senno, ebbe aventura,
che da la balza, che due volte trenta
braccia cadea, si gittò per paura.
A mezzo il tratto trovò molle e lenta
una macchia di rubi e di verzura,
a cui bastò graffiargli un poco il volto:
del resto lo mandò libero e sciolto.

L’altro s’attacca ad un scheggion ch’usciva
fuor de la roccia, per salirvi sopra;
perché si spera, s’alla cima arriva,
di trovar via che dal pazzo lo cuopra.
Ma quel nei piedi (che non vuol che viva)
lo piglia, mentre di salir s’adopra:
e quanto più sbarrar puote le braccia,
le sbarra sì, ch’in duo pezzi lo straccia;

a quella guisa che veggiàn talora
farsi d’uno aeron, farsi d’un pollo,
quando si vuol de le calde interiora
che falcone o ch’astor resti satollo.
Quanto è bene accaduto che non muora
quel che fu a risco di fiaccarsi il collo!
ch’ad altri poi questo miracol disse,
sì che l’udì Turpino, e a noi lo scrisse.

E queste ed altre assai cose stupende
fece nel traversar de la montagna.
Dopo molto cercare, al fin discende
verso meriggie alla terra di Spagna;
e lungo la marina il camin prende,
ch’intorno a Taracona il lito bagna:
e come vuol la furia che lo mena,
pensa farsi uno albergo in quella arena,

58 dove dal sole alquanto si ricuopra;
e nel sabbion si caccia arrido e trito.
Stando così, gli venne a caso sopra
Angelica la bella e il suo marito,
ch’eran (sì come io vi narrai di sopra)
scesi dai monti in su l’ispano lito.
A men d’un braccio ella gli giunse appresso,
perché non s’era accorta ancora d’esso.

Che fosse Orlando, nulla le soviene:
troppo è diverso da quel ch’esser suole.
Da indi in qua che quel furor lo tiene,
è sempre andato nudo all’ombra e al sole:
se fosse nato all’aprica Siene,
o dove Ammone il Garamante cole,
o presso ai monti onde il gran Nilo spiccia,
non dovrebbe la carne aver più arsiccia.

Quasi ascosi avea gli occhi ne la testa,
la faccia macra, e come un osso asciutta,
la chioma rabuffata, orrida e mesta,
la barba folta, spaventosa e brutta.
Non più a vederlo Angelica fu presta,
che fosse a ritornar, tremando tutta:
tutta tremando, e empiendo il ciel di grida,
si volse per aiuto alla sua guida.

Come di lei s’accorse Orlando stolto,
per ritenerla si levò di botto:
così gli piacque il delicato volto,
così ne venne immantinente giotto.
D’averla amata e riverita molto
ogni ricordo era in lui guasto e rotto.
Gli corre dietro, e tien quella maniera
che terria il cane a seguitar la fera.

Il giovine che ’l pazzo seguir vede
la donna sua, gli urta il cavallo adosso,
e tutto a un tempo lo percuote e fiede,
come lo trova che gli volta il dosso.
Spiccar dal busto il capo se gli crede:
ma la pelle trovò dura come osso,
anzi via più ch’acciar; ch’Orlando nato
impenetrabile era ed affatato.

Come Orlando sentì battersi dietro,
girossi, e nel girare il pugno strinse,
e con la forza che passa ogni metro,
ferì il destrier che ’l Saracino spinse.
Feril sul capo, e come fosse vetro,
lo spezzò sì, che quel cavallo estinse:
e rivoltosse in un medesmo istante
dietro a colei che gli fuggiva inante.

Caccia Angelica in fretta la giumenta,
e con sferza e con spron tocca e ritocca;
che le parrebbe a quel bisogno lenta,
se ben volasse più che stral da cocca.
De l’annel c’ha nel dito si ramenta,
che può salvarla, e se lo getta in bocca:
e l’annel, che non perde il suo costume,
la fa sparir come ad un soffio il lume.

O fosse la paura, o che pigliasse
tanto disconcio nel mutar l’annello,
o pur, che la giumenta traboccasse,
che non posso affermar questo né quello;
nel medesmo momento che si trasse
l’annello in bocca e celò il viso bello,
levò le gambe ed uscì de l’arcione,
e si trovò riversa in sul sabbione.

Più corto che quel salto era dua dita,
aviluppata rimanea col matto,
che con l’urto le avria tolta la vita;
ma gran ventura l’aiutò a quel tratto.
Cerchi pur, ch’altro furto le dia aita
d’un’altra bestia, come prima ha fatto;
che più non è per riaver mai questa
ch’inanzi al paladin l’arena pesta.

Non dubitate già ch’ella non s’abbia
a provedere; e seguitiamo Orlando,
in cui non cessa l’impeto e la rabbia
perché si vada Angelica celando.
Segue la bestia per la nuda sabbia,
e se le vien più sempre approssimando:
già già la tocca, ed ecco l’ha nel crine,
indi nel freno, e la ritiene al fine.

Con quella festa il paladin la piglia,
ch’un altro avrebbe fatto una donzella:
le rassetta le redine e la briglia,
e spicca un salto ed entra ne la sella;
e correndo la caccia molte miglia,
senza riposo, in questa parte e in quella:
mai non le leva né sella né freno,
né le lascia gustare erba né fieno.

Volendosi cacciare oltre una fossa,
sozzopra se ne va con la cavalla.
Non nocque a lui, né sentì la percossa;
ma nel fondo la misera si spalla.
Non vede Orlando come trar la possa;
e finalmente se l’arreca in spalla,
e su ritorna, e va con tutto il carco,
quanto in tre volte non trarrebbe un arco.

Sentendo poi che gli gravava troppo,
la pose in terra, e volea trarla a mano.
Ella il seguia con passo lento e zoppo;
dicea Orlando: - Camina! - e dicea invano.
Se l’avesse seguito di galoppo,
assai non era al desiderio insano.
Al fin dal capo le levò il capestro,
e dietro la legò sopra il piè destro;

e così la strascina, e la conforta
che lo potrà seguir con maggior agio.
Qual leva il pelo, e quale il cuoio porta,
dei sassi ch’eran nel camin malvagio.
La mal condotta bestia restò morta
finalmente di strazio e di disagio.
Orlando non le pensa e non la guarda,
e via correndo il suo camin non tarda.

Di trarla, anco che morta, non rimase,
continoando il corso ad occidente;
e tuttavia saccheggia ville e case,
se bisogno di cibo aver si sente;
e frutte e carne e pan, pur ch’egli invase,
rapisce; ed usa forza ad ogni gente:
qual lascia morto e qual storpiato lassa;
poco si ferma, e sempre inanzi passa.

Avrebbe così fatto, o poco manco,
alla sua donna, se non s’ascondea;
perché non discernea il nero dal bianco,
e di giovar, nocendo si credea.
Deh maledetto sia l’annello ed anco
il cavallier che dato le l’avea!
che se non era, avrebbe Orlando fatto
di sé vendetta e di mill’altri a un tratto.

Né questa sola, ma fosser pur state
in man d’Orlando quante oggi ne sono;
ch’ad ogni modo tutte sono ingrate,
né si trova tra loro oncia di buono.
Ma prima che le corde rallentate
al canto disugual rendano il suono,
fia meglio differirlo a un’altra volta,
acciò men sia noioso a chi l’ascolta.

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