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28 maggio 2019

da Il nome della rosa – Umberto Eco

da Il nome della rosa – Umberto Eco

“Ecco,” mormorai, lasciandomi cadere sfinito per terra.
Nicola dette prova di grande energia, gridò ordini ai servi, dette consigli ai monaci che lo attorniavano, inviò qualcuno ad aprire le altre porte dell'Edificio, altri spinse a cercar secchi e recipienti di ogni genere, indirizzò i presenti verso le sorgenti e i depositi d'acqua della cinta. Comandò ai vaccari di usare i muli e gli asini per trasportare degli orci... Se a dare queste disposizioni fosse stato un uomo dotato di autorità, sarebbe stato subito ubbidito. Ma i famigli erano usi ricevere ordini da Remigio, gli scrivani da Malachia, tutti dall'Abate. E nessuno dei tre era ahimè presente. I monaci cercavano con gli occhi l'Abate per cercare indicazioni e conforto, e non lo trovavano, e solo io sapevo che egli era morto, o stava morendo in quel momento, murato in un budello asfittico che ora si stava trasformando in un forno, in un toro di Falaride.
Nicola spingeva i vaccari da un lato ma qualche altro monaco, animato da buone intenzioni, li spingeva dall'altro. Alcuni confratelli avevano evidentemente perduto la calma, altri erano ancora intorpiditi dal sonno. Io cercavo di spiegare, ché
ormai avevo ripreso l'uso della parola, ma è necessario ricordare che ero pressoché ignudo, avendo buttato la tonaca alle fiamme, e la vista del ragazzo che ero, sanguinante, annerito nel volto dalla fuliggine, indecentemente implume nel corpo, instupidito ora dal freddo, non doveva certo ispirare fiducia.
Finalmente Nicola riuscì a trascinare alcuni confratelli e altra gente nella cucina, che frattanto qualcuno aveva reso accessibile. Qualcun altro ebbe il buon senso di portare delle torce. Trovammo il locale in gran disordine, e compresi che Guglielmo doveva averlo messo a soqquadro per cercare acqua e recipienti adatti al trasporto.
Vidi in quel mentre proprio Guglielmo che sbucava dalla porta del refettorio, il volto bruciacchiato, l'abito fumigante, in mano aveva una gran pignatta e provai pietà per lui, povera allegoria dell'impotenza. Compresi che, se pure era riuscito a trasportare al secondo piano una pentola d'acqua senza rovesciarla, e se pure lo aveva fatto più d'una volta, doveva aver ottenuto ben poco. Mi sovvenni della storia di sant'Agostino, quando vede un fanciullo che tenta di travasare l'acqua del mare con un cucchiaio: il fanciullo era un angelo e così faceva per prendersi gioco del santo che pretendeva penetrare i misteri della natura divina. E come l'angelo mi parlò Guglielmo appoggiandosi esausto allo stipite della porta: “E' impossibile, non ce la faremo mai, neppure con tutti i monaci dell'abbazia. La biblioteca è perduta.” Diversamente dall'angelo, Guglielmo piangeva.
Io mi strinsi a lui, mentre egli strappava da un tavolo un panno e tentava di ricoprirmi. Ci fermammo a osservare, ormai sconfitti, ciò che accadeva intorno a noi.
Era un accorrere disordinato di gente, alcuni salivano a mani nude e si incrociavano per la scala a chiocciola con chi a mani nude, spinto da stolida curiosità, era già salito, e ora discendeva a cercar recipienti. Altri più accorti cercavano subito pentole e bacili, per accorgersi che in cucina non vi era acqua bastante. All'improvviso lo stanzone fu invaso da alcuni muli che recavano degli orci, e i vaccari che li spingevano, li scaricarono e accennarono a trasportare l'acqua in alto. Ma non conoscevano la strada per salire allo scriptorium, e ci volle del tempo prima che alcuni degli scrivani li istruissero, e quando salivano si scontravano con coloro che discendevano terrorizzati. Alcuni degli orci si infransero e sparsero l'acqua per terra, altri furono passati lungo le scale a chiocciola da mani volonterose. Seguii il gruppo e mi trovai nello scriptorium: dall'accesso alla biblioteca proveniva un fumo denso, gli ultimi che avevano tentato di spingersi su per il torrione orientale già ritornavano tossendo con gli occhi arrossati e dichiaravano che non si poteva più penetrare in quell'inferno.

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