Prendiamo il
giorno in cui mia moglie mi ha dato la
bella no tizia. Eravamo alla stazione,
ma giù, al piano della metropolitana (che già mi pare una scelta di cattivo gusto,
come location per una separazione).
Il finale
del discorso a strofe faceva così: Non siamo lenzuoli | che tornano puliti | dopo
un ultimo lavaggio (in risposta a un mio
sommesso tentativo di recupero: è chiaro
che se l’era preparata).
Se mi fosse
avanzato tanto così d’autostima, almeno su questo rap ignobile (che a tutt’oggi, - com’è tipico delle brutte
canzoni, - mi torna in mente dieci volte al giorno, rinnovando l’umiliazione ogni volta), avrei
dovuto come minimo prenderla a pernacchie. E invece, silenzio. Una specie di
gusto perverso a stare lì a vedere fino a che punto ero disposto a permetterle
di perseverare in quel linguaggio ridicolo e infarcito di metafore televisive
che infilava ogni due e tre nelle frasi, come se fosse alla platea di un
convegno del Rotary, e non a me, che stava parlando.
Però l’ho
interrotta che non aveva ancora finito (e chissà quale altro capolavoro aveva
pronto), le ho dato un infantile bacetto sulla guancia per sussurrarle all’orecchio,
in un penoso falsetto: «Io me ne vado: ciao».
Lei c’è
restata apertamente insoddisfatta (l’effetto a cui probabilmente aspiravo), neutralizzata
da quella conclusione prematura, come le avessi tagliato la battuta, ed è andata
in stallo mentre io prendevo la scala mobile, patetica pantomima del distacco, il
tapis-roulant della vita che ti porta via senza neanche la tua partecipazione
(lei ferma, tu in allontanamento).
Se in quel
momento mi fossi voltato, - la verità, - sarei scoppiato a piangere come i miei
bambini quando li ho lasciati alla maestra il primo giorno di scuola. Invece ho
tenuto duro, non so proprio a chi dovevo dimostrare tutta quella presenza di
spirito, non c’era mica nessuno che mi guardava. Neanche mia moglie, ormai
definitivamente fuori campo.
Colpa del
cinema. È impossibile che le migliaia di film che abbiamo visto non producano
effetti d’emulazione a nostra insaputa. Nell’arco della giornata, se uno ci pensa
sopra, gli capitano diverse occasioni in cui si trova a fare qualcosa, - generalmente
di sportivo o comunque di leggero, che abbia una vaga suggestività estetica, -
come se a pochi metri di distanza ci fosse una troupe al completo che lo sta riprendendo.
Cose tipo disinnescare l’antifurto della macchina con una puntata decisa del
telecomando per poi mettersi rapidamente al volante (magari togliendosi la
giacca nell’atto di entrare), oppure guardare intensamente un punto indefinito,
manco si fosse attraversati da un pensiero profondissimo. Questo recitare non
richiesto, questa illusione di un pubblico che stia lì a prendere il meglio di
noi mentre fingiamo di non sapere d’essere guardati, è la povera rivincita
sulla modestia delle nostre vite, che da sempre l’arte popolare ci offre (e la
ragione per cui, in fondo, non la lasciamo morire).
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