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22 giugno 2019

da Non avevo capito niente - Diego De Silva


da Non avevo capito niente - Diego De Silva

Prendiamo il giorno in cui mia moglie mi  ha dato la bella no tizia. Eravamo alla  stazione, ma giù, al piano della metropolitana (che già mi pare una scelta di cattivo gusto, come location per una separazione).
Il finale del discorso a strofe faceva così: Non siamo lenzuoli | che tornano puliti | dopo un ultimo lavaggio  (in risposta a un mio sommesso tentativo di recupero: è  chiaro che se l’era preparata).
Se mi fosse avanzato tanto così d’autostima, almeno su  questo rap ignobile (che a  tutt’oggi, - com’è tipico delle brutte canzoni, - mi torna in mente dieci volte al giorno,  rinnovando l’umiliazione ogni volta), avrei dovuto come minimo prenderla a pernacchie. E invece, silenzio. Una specie di gusto perverso a stare lì a vedere fino a che punto ero disposto a permetterle di perseverare in quel linguaggio ridicolo e infarcito di metafore televisive che infilava ogni due e tre nelle frasi, come se fosse alla platea di un convegno del Rotary, e non a me, che stava parlando.
Però l’ho interrotta che non aveva ancora finito (e chissà quale altro capolavoro aveva pronto), le ho dato un infantile bacetto sulla guancia per sussurrarle all’orecchio, in un penoso falsetto: «Io me ne vado: ciao».
Lei c’è restata apertamente insoddisfatta (l’effetto a cui probabilmente aspiravo), neutralizzata da quella conclusione prematura, come le avessi tagliato la battuta, ed è andata in stallo mentre io prendevo la scala mobile, patetica pantomima del distacco, il tapis-roulant della vita che ti porta via senza neanche la tua partecipazione (lei ferma, tu in allontanamento).
Se in quel momento mi fossi voltato, - la verità, - sarei scoppiato a piangere come i miei bambini quando li ho lasciati alla maestra il primo giorno di scuola. Invece ho tenuto duro, non so proprio a chi dovevo dimostrare tutta quella presenza di spirito, non c’era mica nessuno che mi guardava. Neanche mia moglie, ormai definitivamente fuori campo.
Colpa del cinema. È impossibile che le migliaia di film che abbiamo visto non producano effetti d’emulazione a nostra insaputa. Nell’arco della giornata, se uno ci pensa sopra, gli capitano diverse occasioni in cui si trova a fare qualcosa, - generalmente di sportivo o comunque di leggero, che abbia una vaga suggestività estetica, - come se a pochi metri di distanza ci fosse una troupe al completo che lo sta riprendendo. Cose tipo disinnescare l’antifurto della macchina con una puntata decisa del telecomando per poi mettersi rapidamente al volante (magari togliendosi la giacca nell’atto di entrare), oppure guardare intensamente un punto indefinito, manco si fosse attraversati da un pensiero profondissimo. Questo recitare non richiesto, questa illusione di un pubblico che stia lì a prendere il meglio di noi mentre fingiamo di non sapere d’essere guardati, è la povera rivincita sulla modestia delle nostre vite, che da sempre l’arte popolare ci offre (e la ragione per cui, in fondo, non la lasciamo morire).

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