da Primavera di bellezza – Beppe Fenoglio
Gli altri sognavano e soffrivano quanto loro due. Oprandi scorreva tutto il mare col suo occhio infantile e grave, infine disse: «Poteva capitarmi di vedere il periscopio di un sottomarino. Meglio così, poi mi sarei chiesto se era nostro o loro e mi ci sarei consumato il cervello.»
A quelle parole il convoglio frenò con uno stridore da catastrofe. Balzarono a terra gli ufficiali, ognuno scalpicciando sulla ghiaia verso il carro del proprio plotone. Jacoboni non
calzava stivali, ma pantofole casalinghe su calze lavorate ai ferri grossi.
«Presunto allarme aereo. Nessuno scenda, guai a chi scende. Calma, non sarà nulla, calma.»
Lippolis era volteggiato a metà fuori del vagone. «Mingere dobbiamo, signor tenente.»
« Piscia dal carro. »
Si trovavano in un punto bestiale per un attacco aereo: un palmo di terra desertica, quindi il mare basso, da semicupio. Jacoboni, mani in tasca, sorvegliava il cielo, col mento alto e
fermo, alle orecchie dei soldati l’aria grillava.
Falso allarme, ripartirono, il cielo s’era ingiallito, il calore inebetiva. Presso Orbetello svenne il mitragliere Vanzanella, gli colarono sulla faccia i fondi delle borracce. Sostarono a Civitavecchia, nei pochi minuti di fermata sembrava che il soffitto dovesse fondersi e versarglisi addosso ustionandoli a morte. Pigiati sulla porta chiamavano le dame del posto di ristoro, afoni e furibondi, pronti a minacciarle con la baionetta.
Lulli si spastoiò la lingua per precisare che arrivavano a San Lorenzo. Poi a Oprandi: «A buzzurro che vuoi vedere il Cupolone: sta a sinistra sta, dal lato cieco del carro.»
Nei vapori di caldo la città apparve a Johnny in miraggio, le case battevano come pistoni a brevissima corsa.
«Roma divina!» esclamò Petrangeli.
«Cialappa,» borbottò Dian, che non apriva bocca da una settimana.
Non ci fu caserma a Pietralata, li accantonarono in una scuola nel cuore di Montesacro, un embrionale quartiere di rade villette per impiegatucci ministeriali e di viali sempre deserti che ad ampio arco si perdevano nell’Agro retrostante. L’urbe sfumava e bruiva oltre il Ponte Nomentano.
L’edifìcio era nuovo di zecca, economico ma ben rifinito, sufficiente per mille uomini fuorché nei servizi e nel cortile, piastrellato e leggermente avvallantesi in centro, presto insidiosamente patinato dagli scolaticci di rancio. Dormivano una squadra per aula, sui teli-tenda gonfi di paglia tritata, appendevano armi e zaini agli attaccapanni degli scolari. Il residuo odore di merendina fu rapidamente sopraffatto dal puzzo di concia dei soldati. Per le munizioni si era costituita una riservetta in una grotta tufacea ben addentro l’Agro.
Nemmeno a Roma vissero da soldati, continuarono l’ordine chiuso e la teoria, pur percependo il soldo da zona d’operazioni, e mai vennero impiegati all’aeroporto del Littorio; lo videro di sfuggita una volta sola; stava atterrandovi un Caproni, gli avieri di guardia erano efebici e inguainatissimi, salvo il sensazionale sboffo dei calzoni.
In Sicilia gli alleati progredivano metodicamente, Garofalo si faceva sempre più fosco e angoloso. Una sera lo attorniarono con una vaga aria consolatoria, ma li prevenne seccamente.
«Me ne frego.»
«Bravo! »
«Non ce l’hanno insegnato, inculcato loro il menefrego? Quindi menefreghismo integrale, se vogliamo essere seri.»
«Giustissimo,» approvò Teresio Oprandi. «Non possono esserci due
pesi e due misure nel menefrego.»
«Del resto, » aggiunse Lippolis, «vivessimo in un paese serio, Mussolini sarebbe freddo cadavere da un pezzo. Eh: se indietreggio uccidetemi,» e rovesciò le mani con un gesto
avvocatesco.
Per l’istruzione scendevano nell’Agro, in un immenso spazio simile a un disteso manto di leone. Per andarci passavano davanti al lussuoso collegio per vigilatrici della Gil e poiché nel transito dal suburbio alla campagna camminavano in fila indiana ognuno indugiava a spiare attraverso gli oblò aperti nel muro laccato di verde.
« Hanno tanto di piscina, le porche.»
E Lorusso: « Vulva sublime, riserva dei gerarchi.»
D’Addio infilava la sua vecchia voce in un oblò:
«Venite a letto con l’esercito, se sentite veramente l’amor di patria!»
Timorosi di complicazioni con l’autorità fascista, gli ufficiali li strappavano da quegli spiragli e li cacciavano avanti.
Gli altri sognavano e soffrivano quanto loro due. Oprandi scorreva tutto il mare col suo occhio infantile e grave, infine disse: «Poteva capitarmi di vedere il periscopio di un sottomarino. Meglio così, poi mi sarei chiesto se era nostro o loro e mi ci sarei consumato il cervello.»
A quelle parole il convoglio frenò con uno stridore da catastrofe. Balzarono a terra gli ufficiali, ognuno scalpicciando sulla ghiaia verso il carro del proprio plotone. Jacoboni non
calzava stivali, ma pantofole casalinghe su calze lavorate ai ferri grossi.
«Presunto allarme aereo. Nessuno scenda, guai a chi scende. Calma, non sarà nulla, calma.»
Lippolis era volteggiato a metà fuori del vagone. «Mingere dobbiamo, signor tenente.»
« Piscia dal carro. »
Si trovavano in un punto bestiale per un attacco aereo: un palmo di terra desertica, quindi il mare basso, da semicupio. Jacoboni, mani in tasca, sorvegliava il cielo, col mento alto e
fermo, alle orecchie dei soldati l’aria grillava.
Falso allarme, ripartirono, il cielo s’era ingiallito, il calore inebetiva. Presso Orbetello svenne il mitragliere Vanzanella, gli colarono sulla faccia i fondi delle borracce. Sostarono a Civitavecchia, nei pochi minuti di fermata sembrava che il soffitto dovesse fondersi e versarglisi addosso ustionandoli a morte. Pigiati sulla porta chiamavano le dame del posto di ristoro, afoni e furibondi, pronti a minacciarle con la baionetta.
Lulli si spastoiò la lingua per precisare che arrivavano a San Lorenzo. Poi a Oprandi: «A buzzurro che vuoi vedere il Cupolone: sta a sinistra sta, dal lato cieco del carro.»
Nei vapori di caldo la città apparve a Johnny in miraggio, le case battevano come pistoni a brevissima corsa.
«Roma divina!» esclamò Petrangeli.
«Cialappa,» borbottò Dian, che non apriva bocca da una settimana.
Non ci fu caserma a Pietralata, li accantonarono in una scuola nel cuore di Montesacro, un embrionale quartiere di rade villette per impiegatucci ministeriali e di viali sempre deserti che ad ampio arco si perdevano nell’Agro retrostante. L’urbe sfumava e bruiva oltre il Ponte Nomentano.
L’edifìcio era nuovo di zecca, economico ma ben rifinito, sufficiente per mille uomini fuorché nei servizi e nel cortile, piastrellato e leggermente avvallantesi in centro, presto insidiosamente patinato dagli scolaticci di rancio. Dormivano una squadra per aula, sui teli-tenda gonfi di paglia tritata, appendevano armi e zaini agli attaccapanni degli scolari. Il residuo odore di merendina fu rapidamente sopraffatto dal puzzo di concia dei soldati. Per le munizioni si era costituita una riservetta in una grotta tufacea ben addentro l’Agro.
Nemmeno a Roma vissero da soldati, continuarono l’ordine chiuso e la teoria, pur percependo il soldo da zona d’operazioni, e mai vennero impiegati all’aeroporto del Littorio; lo videro di sfuggita una volta sola; stava atterrandovi un Caproni, gli avieri di guardia erano efebici e inguainatissimi, salvo il sensazionale sboffo dei calzoni.
In Sicilia gli alleati progredivano metodicamente, Garofalo si faceva sempre più fosco e angoloso. Una sera lo attorniarono con una vaga aria consolatoria, ma li prevenne seccamente.
«Me ne frego.»
«Bravo! »
«Non ce l’hanno insegnato, inculcato loro il menefrego? Quindi menefreghismo integrale, se vogliamo essere seri.»
«Giustissimo,» approvò Teresio Oprandi. «Non possono esserci due
pesi e due misure nel menefrego.»
«Del resto, » aggiunse Lippolis, «vivessimo in un paese serio, Mussolini sarebbe freddo cadavere da un pezzo. Eh: se indietreggio uccidetemi,» e rovesciò le mani con un gesto
avvocatesco.
Per l’istruzione scendevano nell’Agro, in un immenso spazio simile a un disteso manto di leone. Per andarci passavano davanti al lussuoso collegio per vigilatrici della Gil e poiché nel transito dal suburbio alla campagna camminavano in fila indiana ognuno indugiava a spiare attraverso gli oblò aperti nel muro laccato di verde.
« Hanno tanto di piscina, le porche.»
E Lorusso: « Vulva sublime, riserva dei gerarchi.»
D’Addio infilava la sua vecchia voce in un oblò:
«Venite a letto con l’esercito, se sentite veramente l’amor di patria!»
Timorosi di complicazioni con l’autorità fascista, gli ufficiali li strappavano da quegli spiragli e li cacciavano avanti.
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