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22 giugno 2019

da “Gli indifferenti” – Alberto Moravia

opera di Viktor-SHeleg
da “Gli indifferenti” – Alberto Moravia

Subito ha un sogno strano: le pare di vedere quell'immaginario amante che aveva saputo così bene descrivere a Leo, alto, forse perché sta in piedi mentre ella giace supina, dalla fronte calma, dagli occhi pieni al tempo stesso di serenità e d'indulgenza; è molto dritto, è vestito trasandatamente e la guarda con meravigliata attenzione come se veramente sia entrato allora nella stanza e l'abbia appunto trovata così com'è, distesa nuda, là, su quel letto, con quel suo corpo una volta intatto ed ora deflorato, e anche, sì, anche qua e là insudiciato, sul petto, sul ventre, sulle braccia, dalle recenti libidini di Leo. Ella non si vede, sta supina, ma da quegli sguardi dell'uomo capisce di aver le membra sparse di Dio sa che macchie o segni, di esser mutata anche per lui, straniero, da quella Carla che era prima della tresca; restano così ambedue, in questi atteggiamenti per qualche istante, si guardano, non si muovono, ma alla fine la vista di quel volto calmo, severo e attento, la tortura di quegli occhi rivolti al suo corpo deflorato (e il peggio è che ella non può vedersi) le riescono intollerabili, con un gesto istintivo si copre il viso con un braccio e vorrebbe piangere; altra sgradevole sorpresa; i suoi occhi restano secchi, per quanti sforzi faccia le lacrime non sgorgano, ella non può più piangere. Eppure un dolore immenso, un rammarico amaro, non sa di che, la pungono; si lamenta, urla, almeno così le pare nell'imbroglio del sogno, e, pur restando supina (altro tormento: il senso di essere inchiodata contro quel letto, di non potersi alzare, piegare...) si torce col petto, coi fianchi nudi, a intervalli, tra questi suoi movimenti spasmodici di farfalla trafitta, vede la testa calma, laggiù, molto lontana, quegli occhi non cessano di guardarla, quella fronte giusta: "piangere... piangere" ripete dentro di sé, fa tutti i tentativi per bagnare almeno di una sola lacrima le sue palpebre aride, ma è inutile... quel suo dolore non si esprime, resta come un peso enorme nella sua anima, la soffoca; alfine non ne può più e tende le braccia frenetiche verso quella testa lontana... le pare di chiamar l'uomo coi nomi più dolci, dei nomi nuovi e spontanei che la commuovono profondamente, e di promettergli di amarlo tutta la vita, sempre (questo senso di eternità le dà una grande amarezza, non sa perché); ma invano, ché ad un tratto l'uomo scompare ed ella ricade nell'oscurità; scoppia allora, con crescente sonorità, una sillaba cupa come un rintocco di campana: "San... San... San... San...," che mette nella sua anima uno scompiglio e una paura atroci; e poi, bruscamente, al nome intero "Santore" ella si desta.

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