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19 giugno 2019

Uno, nessuno e centomila – Luigi Pirandello

Uno, nessuno e centomila – Luigi Pirandello

Mi recai dapprima nello studio del notaro Stampa, in Via del Crocefisso, numero 24. Perché (eh, questi sono sicurissimi dati di fatto) a dì... dell’anno..., regnando Vittorio Emanuele III per grazia di Dio e volontà della nazione re d’Italia nella nobile città di Richieri, in Via del Crocefisso, al numero civico 24, teneva studio di re gio notaro il signor Stampa cav. Elpidio, d’anni 52 o 53.
– Ci sta ancora? Al numero 24? Lo conoscete tutti il notaro Stampa?
Oh, e allora possiamo essere sicuri di non sbagliare. Quel notaro Stampa là, che conosciamo tutti. Va bene? Ma io ero, entrando nello studio, in uno stato d’animo, che voi non vi potete immaginare. Come potreste immaginarvelo, scusate, se vi pare ancora la cosa più naturale del mondo entrare nello studio d’un notaro per stendere un atto qualsiasi, e se dite che lo conoscete tutti questo notaro Stampa?
Vi dico che io ci andavo, quel giorno, per il mio primo esperimento. E insomma, lo volete fare anche voi, sì o no, questo esperimento con me, una buona volta? dico, di penetrare lo scherzo spaventoso che sta sotto alla pacifica naturalezza delle relazioni quotidiane, di quelle che vi paiono le più consuete e normali, e sotto la quieta apparenza della così detta realtà delle cose? Lo scherzo, santo Dio, per cui pure v’accade d’arrabbiarvi ogni cinque minuti e di gridare all’amico che vi sta accanto:
– Ma scusa! ma come non vedi questo? sei cieco?
E quello no, non lo vede, perché vede un’altra cosa lui, quando voi credete che debba vedere la vostra, come pare a voi. La vede invece come pare a lui, e per lui dunque il cieco siete voi.
Questo scherzo, io dico; com’io già lo avevo penetrato.
Ora entravo in quello studio, carico di tutte le riflessioni e considerazioni covate cosí lungamente; e me le sentivo come friggere dentro, insieme, in gran subbuglio; e mi volevo intanto tenere così, in una lucida fissità, in una quasi immobile frigidezza, mentre figuratevi in quale risata fragorosa mi veniva di prorompere nel vedermelo davanti serio serio, poverino, quel signor notaro Stampa, senza il minimo sospetto ch’io potessi per me non essere quale mi vedeva lui, e sicurissimo d’esser lui per me quello stesso che ogni giorno nell’annodarsi la cravattina nera davanti allo specchio si vedeva, con tutte le sue cose attorno.
Capite adesso? Mi veniva d’ammiccare, d’ammiccare anche di lui, per significargli furbescamente «Bada sotto! Bada sotto!». Mi veniva anche, Dio mio, di cacciar fuori all’improvviso la lingua, di smuovere il naso con una subitanea smusatina per alterargli a un tratto, così per gioco e senza malizia, quell’immagine di me ch’egli credeva vera. Ma serio eh? Serio, sù, serio. Dovevo far l’esperimento.
– Dunque, signor notaro, eccomi qua. Ma scusi, lei sta sempre sprofondato in questo silenzio?
Si voltò brusco a quadrarmi. Disse:
– Silenzio. Dove?
Per Via del Crocefisso era difatti in quel momento un continuo transito di gente e di vetture.
– Già; non nella via, certo. Ma ci sono qua tutte queste carte, signor notaro, dietro i vetri impolverati di questi scaffali. Non sente?
Tra turbato e stordito, tornò a squadrarmi; poi tese l’orecchio:
– Che sento?
– Ma questo raspío! Ah, le zampine, scusi, le zampine lì del suo canarino; scusi scusi. Sono unghiute quelle zampine, e raspando su lo zinco della gabbia...
– Già. Sì. Ma che vuol dire?
– Oh, niente. Non le dà ai nervi, a lei, lo zinco, signor notaro?
– Lo zinco? Ma chi ci bada? Non l’avverto...
Eppure, lo zinco, pensi! in una gabbia, sotto le gracili zampine d’un canarino, nello studio d’un notaro... Ci scommetto che non canta, questo canarino.
– Nossignore, non canta.
Cominciava a guardarmi in un certo modo il signor notaro, che stimai prudente lasciar lì il canarino per non compromettere l’esperimento; il quale, almeno in principio, e segnatamente lì, alla presenza del notaro, aveva bisogno che nessun dubbio sorgesse sulle mie facoltà mentali. E domandai al signor notaro se sapesse d’una certa casa, sita in via tale numero tale, di pertinenza d’un certo tale signor Moscarda Vitangelo, figlio del fu Francesco Antonio Moscarda...
– E non è lei?
– Già, io sì. Sarei io... –
Era così bello, peccato! in quello studio di notaro, tra tutti quegli incartamenti ingialliti in quei vecchi scaffali
polverosi, parlare così, come a una distanza di secoli, d’una certa casa di pertinenza d’un certo tal Moscarda Vitangelo... Tanto più che, sì, ero io lì; presente e stipulante, in quello studio di notaro, ma chi sa come e dove se lo vedeva lui, il signor notaro, quel suo studio; che odore ci sentiva diverso da quello che ci sentivo io; e chi sa come e dov’era, nel mondo del signor notaro, quella certa casa di cui gli parlavo con voce lontana; e io, io, nel mondo del signor notaro, chi sa come curioso...

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