Mi
recai dapprima nello studio del notaro Stampa, in Via del Crocefisso, numero
24. Perché (eh, questi sono sicurissimi dati di fatto) a dì... dell’anno...,
regnando Vittorio Emanuele III per grazia di Dio e volontà della nazione re
d’Italia nella nobile città di Richieri, in Via del Crocefisso, al numero
civico 24, teneva studio di re gio notaro il signor Stampa cav. Elpidio, d’anni
52 o 53.
–
Ci sta ancora? Al numero 24? Lo conoscete tutti il notaro Stampa?
Oh,
e allora possiamo essere sicuri di non sbagliare. Quel notaro Stampa là, che
conosciamo tutti. Va bene? Ma io ero, entrando nello studio, in uno stato
d’animo, che voi non vi potete immaginare. Come potreste immaginarvelo, scusate,
se vi pare ancora la cosa più naturale del mondo entrare nello studio d’un notaro
per stendere un atto qualsiasi, e se dite che lo conoscete tutti questo notaro
Stampa?
Vi
dico che io ci andavo, quel giorno, per il mio primo esperimento. E insomma, lo
volete fare anche voi, sì o no, questo esperimento con me, una buona volta?
dico, di penetrare lo scherzo spaventoso che sta sotto alla pacifica
naturalezza delle relazioni quotidiane, di quelle che vi paiono le più consuete
e normali, e sotto la quieta apparenza della così detta realtà delle cose? Lo
scherzo, santo Dio, per cui pure v’accade d’arrabbiarvi ogni cinque minuti e di
gridare all’amico che vi sta accanto:
–
Ma scusa! ma come non vedi questo? sei cieco?
E
quello no, non lo vede, perché vede un’altra cosa lui, quando voi credete che
debba vedere la vostra, come pare a voi. La vede invece come pare a lui, e per
lui dunque il cieco siete voi.
Questo
scherzo, io dico; com’io già lo avevo penetrato.
Ora
entravo in quello studio, carico di tutte le riflessioni e considerazioni
covate cosí lungamente; e me le sentivo come friggere dentro, insieme, in gran
subbuglio; e mi volevo intanto tenere così, in una lucida fissità, in una quasi
immobile frigidezza, mentre figuratevi in quale risata fragorosa mi veniva di
prorompere nel vedermelo davanti serio serio, poverino, quel signor notaro
Stampa, senza il minimo sospetto ch’io potessi per me non essere quale mi
vedeva lui, e sicurissimo d’esser lui per me quello stesso che ogni giorno
nell’annodarsi la cravattina nera davanti allo specchio si vedeva, con tutte le
sue cose attorno.
Capite
adesso? Mi veniva d’ammiccare, d’ammiccare anche di lui, per significargli
furbescamente «Bada sotto! Bada sotto!». Mi veniva anche, Dio mio, di cacciar
fuori all’improvviso la lingua, di smuovere il naso con una subitanea smusatina
per alterargli a un tratto, così per gioco e senza malizia, quell’immagine di
me ch’egli credeva vera. Ma serio eh? Serio, sù, serio. Dovevo far
l’esperimento.
–
Dunque, signor notaro, eccomi qua. Ma scusi, lei sta sempre sprofondato in
questo silenzio?
Si
voltò brusco a quadrarmi. Disse:
–
Silenzio. Dove?
Per
Via del Crocefisso era difatti in quel momento un continuo transito di gente e
di vetture.
–
Già; non nella via, certo. Ma ci sono qua tutte queste carte, signor notaro,
dietro i vetri impolverati di questi scaffali. Non sente?
Tra
turbato e stordito, tornò a squadrarmi; poi tese l’orecchio:
–
Che sento?
–
Ma questo raspío! Ah, le zampine, scusi, le zampine lì del suo canarino; scusi
scusi. Sono unghiute quelle zampine, e raspando su lo zinco della gabbia...
–
Già. Sì. Ma che vuol dire?
–
Oh, niente. Non le dà ai nervi, a lei, lo zinco, signor notaro?
–
Lo zinco? Ma chi ci bada? Non l’avverto...
Eppure,
lo zinco, pensi! in una gabbia, sotto le gracili zampine d’un canarino, nello
studio d’un notaro... Ci scommetto che non canta, questo canarino.
–
Nossignore, non canta.
Cominciava
a guardarmi in un certo modo il signor notaro, che stimai prudente lasciar lì
il canarino per non compromettere l’esperimento; il quale, almeno in principio,
e segnatamente lì, alla presenza del notaro, aveva bisogno che nessun dubbio
sorgesse sulle mie facoltà mentali. E domandai al signor notaro se sapesse
d’una certa casa, sita in via tale numero tale, di pertinenza d’un certo tale
signor Moscarda Vitangelo, figlio del fu Francesco Antonio Moscarda...
–
E non è lei?
–
Già, io sì. Sarei io... –
Era
così bello, peccato! in quello studio di notaro, tra tutti quegli incartamenti
ingialliti in quei vecchi scaffali
polverosi,
parlare così, come a una distanza di secoli, d’una certa casa di pertinenza
d’un certo tal Moscarda Vitangelo... Tanto più che, sì, ero io lì; presente e
stipulante, in quello studio di notaro, ma chi sa come e dove se lo vedeva lui,
il signor notaro, quel suo studio; che odore ci sentiva diverso da quello che
ci sentivo io; e chi sa come e dov’era, nel mondo del signor notaro, quella
certa casa di cui gli parlavo con voce lontana; e io, io, nel mondo del signor
notaro, chi sa come curioso...
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