Castelli di rabbia – Alessandro
Baricco
E il suo
primo pensiero fu “Quella puttana era una negra.” La vedeva,quella donna che da
qualche parte del mondo aveva stretto tra le gambe i signor Rail, chissà se per
mestiere o per piacere, ma più probabilmente per mestiere.
Guardava il
ragazzino, i suoi occhi,le sue labbra, i suoi denti, e se la vedeva sempre più
distintamente – così distintamente che il suo secondo e limpido e fulminante
pensiero fu “Quella puttana era bellissima.” Due pensieri non riempiono che un
attimo.
E fu un
attimo tutto ciò che quel minimo universo di persone, ritagliato via dalla più
generale galassia della vita, e piegato su se stesso dall’emozione di un
apparente scandalo - e fu un attimo tutto ciò che quel minimo universo di
persone concesse al silenzio.
Perché poi,
subito, filtrò la sua voce,attraverso lo smarrimento di ognuno,fino alle
orecchie di tutti.
- Ciao, Mormy.Io
mi chiamo Jun e non sono tua madre.
E non lo
sarò mai.
Con
dolcezza, però.
Questo lo
possono confermare tutti.
Lo disse con
dolcezza.
Poteva dirlo
con malvagità infinita e invece lo disse con dolcezza.
Bisognava
immaginarselo detto con dolcezza. “Ciao, Mormy.
Io mi chiamo
Jun e non sono tua madre.
E non lo
sarò mai.” Quella sera si mise a piovere che sembrava un castigo.
E tirò
avanti tutta la notte con meravigliosa ferocia. “Una pisciata alla grande” come
diceva Ticktel, che sapeva di teologia perché aveva fatto il cuoco in un
seminario, così almeno diceva lui, era una prigione dicevano gli altri, stupidi
è la stessa cosa diceva lui.
Nella sua
camera Mormy se ne stava con le coperte tirate fin sopra la testa aspettando
tuoni che non arrivavano mai.
Aveva otto
anni e non sapeva bene cosa gli stava succedendo.
Però aveva
stampate negli occhi due immagini: il volto di Jun, il più bello che avesse mai
visto, e la tavola apparecchiata giù, in sala da pranzo.
I tre
candelieri, la luce, il collo stretto di bottiglie sfaccettate come diamanti,
le salviette con misteriose lettere ricamate sopra, il fumo che saliva dalla
zuppiera bianca, il bordo dorato dei piatti, la frutta tutta lucida posata su
grandi foglie in una coppiera d’argento.
Tutte queste
cose e il volto di Jun.Gli erano entrate negli occhi, quelle due immagini, come
l’istantanea percezione di una felicità assoluta e incondizionata.
Se le
sarebbe portate dietro per sempre.
Perché è
così che ti frega, la vita.
Ti piglia
quando hai ancora l’anima addormentata e ti semina dentro un’immagine, o un
odore, o un suono che poi non te lo togli più.
E quella lì
era la felicità.
Lo scopri
dopo, quand’è troppo tardi.
E già sei,
per sempre, un esule: a migliaia di chilometri da quell’immagine, da quel
suono, da quell’odore
.Alla
deriva.
Due stanze
più in là se ne stava Jun,in piedi, con il naso schiacciato sui vetri, a
guardare la gran pisciata.
E lì rimase
fino a che non sentì le braccia del signor Rail intorno ai fianchi, e poi le
sue mani che la giravano dolcemente, i suoi occhi che la guardavano stranamente
seri e infine la sua voce che era bassa e segreta.
- Jun, se
c’è qualcosa che vuoi chiedermi fallo adesso.
Jun
incominciò a sciogliergli il foulard rosso che teneva intorno al collo, e poi
gli aprì la giacca e a uno a uno i bottoni del gilet scuro, iniziando dal più
basso e poi venendo su,lentamente, fino a quello più alto che seppur rimasto
ormai solo a difendere l’indifendibile pur tuttavia resistette un istante,
giusto un istante, prima di cedere, in silenzio, proprio mentre il signor Rail
si chinava verso il volto di Jun per dire - ma era quasi un pregare -
Ascoltami, Jun... guardami e chiedimi quello che vuoi...
Ma Jun non
disse nulla.
Semplicemente,
senza che un solo angolo del suo volto si muovesse, e assolutamente in
silenzio, iniziò a piangere, in quel modo che è un modo bellissimo, un segreto
di pochi,piangono solo con gli occhi, come bicchieri pieni fino all’orlo di
tristezza,e impassibili mentre quella goccia di troppo alla fine li vince e
scivola giù dai bordi, seguita poi da mille altre, e immobili se ne stanno lì
mentre gli cola addosso la loro minuta disfatta.
Così
piangeva, Jun.
E non smise
mai, nemmeno per un attimo, mentre le sue mani spogliavano il signor Rail, e
nemmeno dopo, a vederlo nudo sotto di sé e a baciarlo ovunque, non smise mai,
continuò a sciogliere il grumo della propria tristezza in quelle lacrime
immobili e silenziose - non ci sono lacrime più belle - mentre stringeva tra le
mani il sesso del signor Rail e lentamente passava le labbra su quella pelle
liscia e incredibile - non c’erano labbra più belle - e piangeva, in quel suo
modo invincibile, quando aprì le gambe e in un istante, un po’ con rabbia,
prese il sesso del signor Rail dentro di sé, e dunque, incerto modo, tutto il
signor Rail dentro di sé, e puntando le braccia sul letto,guardando dall’alto
il volto dell’uomo che era andato dall’altra parte del mondo a scopare una
donna bellissima e negra, a scoparla con così appassionata esattezza da
lasciarle un bambino nel ventre, guardando quel volto che la guardava prese a
rigirare dentro di sé la vinta resistenza che era il sesso del signor Rail, a
rigirarlo e domarlo perdutamente, perché entrasse ovunque,dentro di lei, e
ritmicamente scivolasse nella follia, mai smettendo di piangere -se quello si
può chiamare semplicemente piangere - eppure con sottile e sempre maggiore
violenza, e furore forse, mentre il signor Rail le piantava le mani nei
fianchi, nell’inutile e falso tentativo di fermare quella donna che si era
presa ormai il suo cazzo e con movimenti ciechi ormai gli aveva strappato dalla
mente tutto ciò che non era l’elementare pretesa di godere ancora, e ancora di
più.
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