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21 luglio 2019

da Il dottor Zivago - Boris Pasternak

da Il dottor Zivago - Boris Pasternak

IN VIAGGIO
1.
Sopravvennero le ultime giornate di marzo, le prime giornate calde dell’anno, falsi preannunci della primavera, sempre seguiti, ogni anno, da un forte abbassamento di temperatura.
In casa Gromeko fervevano i preparativi per il viaggio. Agli inquilini, che nella casa riadattata erano divenuti innumerevoli come i passeri in istrada, vennero presentati come una pulizia generale prima di Pasqua.
Jurij Andrèevich era contrario alla partenza, ma non si opponeva ai preparativi perché considerava l’impresa irrealizzabile e sperava che sarebbe fallita al momento decisivo. Ma le cose andavano avanti e giunse il giorno che se ne dovette parlare seriamente.
Zivago manifestò ancora una volta i propri dubbi alla moglie e al suocero durante un consiglio di famiglia tenuto appositamente.
«Allora, pensate ancora che ho torto e che si deve partire?» concluse. Gli rispose la moglie:
«Tu dici di tirare avanti in qualche modo un anno o due intanto che definiscono i nuovi ordinamenti terrieri, e poi chiedere un po’ di terra vicino a Mosca e farci un orto. Però, su come ce la caveremo nel frattempo, non dici niente. Mentre è questa la cosa più importante: proprio questo si vorrebbe sapere da te!»
«Una vera follia,» rincalzò Aleksàndr Aleksàndrovich, appoggiando la figlia.
«Va bene, mi arrendo,» consentì Jurij Andrèevich. «Quel che mi preoccupa è solo l’ignoto. Noi, così, a occhi chiusi ci scaraventiamo chissà dove, senza avere la minima idea del luogo dove andiamo. Delle tre persone che vivevano a Varykino, due, la mamma e la nonna, non ci sono più, e la terza, il nonno Krueger, se pure vive ancora, è certamente trattenuto come ostaggio, o è in carcere.
«Nell’ultimo anno di guerra non so che affari aveva combinato: col legname e lo stabilimento ha fatto una vendita fittizia a un prestanome o a una banca e registrato tutto a nome di un altro. Che ne sappiamo di questa transazione? Di chi sono oggi le terre, non nel senso della proprietà effettiva che ce ne importa poco, ma chi ne è responsabile? Come sono amministrate? Chissà se sfruttano il bosco? Se le officine lavorano? E, infine, chi ha il potere laggiù, e chi l’avrà prima che noi ci arriviamo?
«Per voi l’ancora della salvezza è Mikùlicyn: non fate che riempirvi la bocca col suo nome. Ma chi vi dice che questo vecchio amministratore sia ancora vivo e si trovi sempre a Varykino? E poi, cosa sappiamo di lui, se non che il nonno pronunciava male il suo cognome, sola ragione per cui ci è rimasto impresso nella memoria?
«Ma poi, che stiamo a discutere? Avete deciso di andare e mi associo. Bisogna però informarsi come si può fare a partire di questi tempi. Inutile rimandare.»
2.
Per informarsi, Jurij Andrèevich si recò alla stazione di Jaroslàv.
L’afflusso della folla era contenuto da transenne di legno collocate attraverso le sale. Sui pavimenti di pietra c’era gente sdraiata, chiusa in grigi cappotti, che si voltava ora su un fianco ora su un altro, tossiva e sputava. Quando parlavano, lo facevano a voce altissima senza tener conto dell’intensità con cui le voci echeggiavano sotto le volte sonore.
La maggior parte erano convalescenti di tifo petecchiale, dimessi dagli ospedali, causa l’affollamento, il giorno successivo alla crisi febbrile. Anche Jurij Andrèevich, come medico, si era trovato nella necessità di adottare la stessa misura, ma non credeva che quegli infelici fossero tanti e che le stazioni servissero loro di rifugio.
«Procuratevi un mandato di viaggio,» gli disse un facchino in grembiule bianco. «Bisogna tentare ogni giorno. I treni sono una rarità, un caso. E si capisce… (il facchino strofinò il pollice e l’indice)… Un po’ di farina o qualcos’altro. Se non ungi, non parti. Questa, poi… (e si dette un colpetto sulla gola)… è una cosa sacrosanta.»
3.
In quel periodo Aleksàndr Aleksàndrovich era stato invitato per alcune consulenze al Consiglio supremo dell’economia nazionale, e Jurij Andrèevich fu chiamato presso un membro dei governo gravemente malato. Entrambi erano stati compensati nel modo migliore che vi fosse allora: alcuni buoni merce presso un distributore chiuso al pubblico, il primo del genere.
Era stato sistemato nei locali di un magazzino militare, presso il Monastero di Simon. Il dottore e il suocero attraversarono due cortili, uno della chiesa e l’altro della caserma. Di là, entrarono direttamente - non c’era nemmeno una soglia - sotto le volte di pietra di un profondo scantinato che andava digradando e allargandosi in fondo, sbarrato da un lungo bancone trasversale. Da là dietro, un magazziniere pesava e consegnava la merce, tranquillamente, senza fretta, allontanandosi qualche volta per andare a rifornirsi in magazzino. Man mano che consegnava, cancellava con un energico segno di matita la voce corrispondente nell’elenco.
Poche erano le persone che aspettavano. «I vostri vuoti,» disse il magazziniere al professore e al dottore, gettando un rapido sguardo sui loro buoni. A tutti e due si spalancarono gli occhi quando nelle piccole federe dei cuscini, allora in uso per le signore, e in altre federe più grandi, cominciarono a veder versare farina, semola, pasta e zucchero; e poi strutto, sapone e fiammiferi. In ciascuna fu messo anche un involto di qualcosa che poi, a casa, si rivelò formaggio del Caucaso.
Genero e suocero si affrettarono a ficcare tutti i loro involti in due grandi sacchi e se li misero alla svelta in spalla, per non infastidire coi loro irriconoscente trambusto il magazziniere che li aveva annientati con la sua munificenza.
Dallo scantinato risalirono all’aria aperta, come ebbri: e non di una gioia animale, quanto piuttosto della consapevolezza che la loro vita serviva pure a qualcosa su questa terra, che non se ne stavano con le mani in mano, e che meritavano i riconoscimenti e gli elogi della giovane padrona di casa, Tonja.
4.
Mentre gli uomini perdevano le giornate negli uffici, sollecitando i mandati di viaggio e i certificati per conservare le stanze che lasciavano, Antonina Aleksàndrovna era occupata a scegliere le cose da imballare.
Andava avanti e indietro, affaccendata, per le tre stanze assegnate come abitazione alla famiglia Gromeko, e considerava a lungo fra le mani ogni cianfrusaglia prima di metterla fra la roba da portar via.
Solo una piccola parte delle loro cose era destinata al bagaglio personale: le altre dovevano essere utilizzate come oggetti di scambio, necessari durante il viaggio e all’arrivo sul posto.
Attraverso il vasistas aperto della finestra entrava l’aria primaverile: un’aria che aveva il sapore di un panino francese appena addentato. Fuori cantavano i galli ed echeggiavano voci di bambini intenti ai loro giochi. Più si arieggiava la stanza e più acuto si sentiva l’odore della naftalina di cui era impregnata la roba invernale tolta dai bauli.
A proposito di quello che si doveva portare e di quello che invece bisognava lasciare, esisteva tutta una teoria elaborata da quanti erano già partiti, le cui istruzioni diffuse nel giro delle conoscenze, facevano testo.
Tali istruzioni, espresse in brevi categoriche indicazioni, erano presenti con tanta chiarezza nella mente di Antonina Aleksàndrovna che aveva l’impressione di sentirle salire dal cortile insieme al cinguettio dei passeri e al lieto rumore dei bambini, come se una voce misteriosa gliele suggerisse dalla strada.
«Stoffe, stoffe,» suonavano le istruzioni, «soprattutto in pezze, ma in viaggio ci badano ed è pericoloso. E’ meglio portarle a tagli, imbastiti alla lesta. In genere, stoffe, manufatti, anche vestiario, preferibilmente giacche e cappotti, se non sono molto usati. Meno cianfrusaglie possibili, niente di pesante. Data la frequente necessità di portare tutto a mano, lasciar stare le ceste e le valigie. Mettere insieme poche cose, scelte accuratamente, in fagotti, che anche una donna o un bambino possano portare. Sono convenienti il sale e il tabacco, come ha dimostrato l’esperienza, sebbene il rischio sia notevole. Denaro in valuta di Kèrenskij. La cosa più difficile sono i documenti.» E così via.
5.
Alla vigilia della partenza si levò la tormenta. Il vento spingeva in alto verso il cielo grigie nubi di volteggianti fiocchi di neve che tornavano sulla terra in bianchi turbinii, s’ingolfavano nel fondo cupo della strada, e la ricoprivano d’un candido velo.
Tutto nella casa era ormai imballato. La sorveglianza delle stanze e di quanto vi rimaneva fu affidata a un’anziana coppia di coniugi, parenti, moscoviti della Egòrovna, con i quali Antonina Aleksàndrovna aveva fatto conoscenza l’inverno precedente allorché, per loro mezzo, aveva dato via roba vecchia, stracci e mobili inutili in cambio di legna e patate.
Di Markèl non ci si poteva fidare. Alla milizia, che aveva scelto come club politico, non accusava gli ex padroni Gromeko d’avergli bevuto il sangue, ma li rimproverava d’averlo sempre, in tutti quegli anni, tenuto all’oscuro, nascondendogli intenzionalmente che l’uomo derivava dalla scimmia.
Antonina Aleksàndrovna condusse per l’ultima volta la coppia di parenti della Egòrovna, un ex commesso e sua moglie, attraverso le stanze, mostrando quali fossero le chiavi di ogni serratura e dove ogni cosa si trovasse, aprendo e chiudendo insieme a loro armadi e cassetti, indicando e spiegando tutto.
I tavoli e le sedie erano addossati contro le pareti, i fagotti per il viaggio stavano ammucchiati in disparte, e da tutte le finestre erano state tolte le tende. La tormenta, con meno impedimenti che non nella cornice dell’intimità invernale, si affacciava nelle stanze ormai vuote attraverso le finestre spoglie. A ognuno la tormenta ricordava qualcosa. A Jurij Andrèevich l’infanzia e la morte della madre; ad Antonina Aleksàndrovna e Aleksàndr Aleksàndrovich la fine e i funerali di Anna Ivànovna. A tutti pareva che quella fosse la loro ultima notte in una casa che non avrebbero più rivisto. Su questo s’ingannavano, ma, suggestionati da quel pensiero che non si confidavano per non amareggiarsi a vicenda, ciascuno fra sé ripensava la propria esistenza, gli anni trascorsi sotto quel tetto e tratteneva a stento le lacrime.
Ciò non impediva ad Antonina Aleksàndrovna di mantenere le forme di fronte agli estranei, conversando senza tregua con la donna alla quale affidava la casa. Esagerava l’importanza del servigio che le veniva reso, e per manifestare la sua gratitudine, ogni momento, con molte scuse andava nella stanza vicina tornando sempre con un dono, ora un fazzoletto, ora una blusa, ora un pezzo di indiana o di chiffon. E tutte quelle stoffe erano scure, a quadretti o pallini bianchi, come nera e punteggiata di bianco era l’oscura
strada nevosa che attraverso le nude finestre senza tende guardava quella sera d’addio.

Traduzione dal russo di Pietro Zveteremich

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