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15 luglio 2019

da Il gattopardo - Giuseppe Tomasi di Lampedusa

da Il gattopardo - Giuseppe Tomasi di Lampedusa

Don Fabrizio fu sopraffatto da sincera commozione: il rospo era stato ingoiato, la testa e gl’intestini maciullati scendevano giù per la sua gola: restavano ancora da masticare le zampe ma era roba di poco conto in confronto del resto; il più era fatto. Assaporato questo senso di liberazione, cominciò in lui a farsi strada l’affetto per Tancredi; si raffigurò gli stretti occhi azzurri che avrebbero sfavillato leggendo la risposta festosa; immaginò, ricordò per dir meglio, i primi mesi di un matrimonio di amore durante i quali le frenesie, le acrobazie dei sensi sono smaltate e sorrette da tutte le gerarchie angeliche, benevole benché sorprese. Ancor più in là intravide la vita sicura, la possibilità di sviluppo dei talenti di Tancredi, cui, senza questo, la mancanza di quattrini avrebbe tarpato le ali.
Il nobiluomo si alzò, fece un passo verso don Calogero attonito, lo sollevò dalla poltrona, se lo strinse al petto; le gambe corte del Sindaco rimasero sospese in aria. In quella stanza di remota provincia siciliana venne a raffigurarsi una stampa giapponese nella quale un moscone peloso pendesse da un enorme iris violaceo. Quando don Calogero ritoccò il pavimento: “Debbo proprio regalargli un paio di rasoi inglesi” pensò Don Fabrizio “così non può andare avanti.”
Padre Pirrone bloccò il turbinare dei propri pollici, si alzò, strinse la mano al Principe. “Eccellenza, invoco la protezione divina su queste nozze; la vostra gioia è divenuta la mia.” A don Calogero porse le punte delle dita senza parlare. Poi con una nocca percosse un barometro appeso al muro; calava; brutto tempo in vista. Si risiedette, aprì il breviario.
“Don Calogero” diceva il Principe “l’amore di questi due giovani è la base di tutto, l’unico fondamento sul quale può sorgere la loro felicità futura. Questo lo sappiamo; punto e basta. Ma noi, uomini anziani, siamo costretti a preoccuparci di altre cose. È inutile dirvi quanto sia illustre la famiglia Falconeri: venuta in Sicilia con Carlo d’Angiò, essa ha trovato
modo di continuare a fiorire sotto gli Aragonesi, gli Spagnoli, i re Borboni (se mi è permesso nominarli dinanzi a voi) e sono sicuro che prospererà anche sotto la nuova dinastia continentale. (Dio guardi)” (Non era mai possibile conoscere quando Don Fabrizio ironizzasse o quando si sbagliasse); “furono Pari del Regno, Grandi di Spagna, Cavalieri di Santiago, e quando salta loro il ticchio di essere cavalieri di Malta non hanno che da alzare un dito, e via Condotti sforna loro i diplomi senza fiatare, come se fossero maritozzi, almeno fino ad oggi.” (Questa insinuazione perfida fu del tutto sprecata, ché don Calogero ignorava nel modo più completo gli statuti del Sovrano Ordine Gerosolimitano di San Giovanni.) “Sono sicuro che vostra figlia con la sua rara bellezza ornerà ancor di più il vecchio tronco dei Falconeri, e con la sua virtù saprà emulare quella delle sante Principesse, l’ultima delle quali, mia sorella buon’anima, certo benedirà dal cielo gli sposi.” E Don Fabrizio si commosse di nuovo ricordando la sua cara Giulia la cui vita spregiata era stata un perpetuo sacrificio dinanzi alle stravaganze frenetiche del padre di Tancredi. “In quanto al ragazzo, lo conoscete; e, se non lo conosceste, ci son qua io che potrei garantirvelo in tutto e per tutto. Tonnellate di bontà ci sono in lui, e non sono io solo che lo dico, non è vero, Padre Pirrone?”
L’ottimo Gesuita, tirato fuori dalla propria lettura, venne a trovarsi ad un tratto dinanzi a un dilemma penoso. Era stato confessore di Tancredi, e di peccatucci suoi ne conosceva più d’uno: nessuno veramente grave, s’intende, però tali ad ogni modo da detrarre parecchi quintali alla massiccia bontà della quale si parlava; di natura poi, tutti, da garantire una ferrea infedeltà coniugale. Questo, va da sé, non poteva esser detto tanto per ragioni sacramentali come per convenienze mondane; d’altra parte egli voleva bene al ragazzo e benché disapprovasse quel matrimonio dal fondo del proprio cuore, non avrebbe mai detto una parola che avesse potuto, non si dice neppure impedire ma offuscarne la scorrevolezza. Trovò rifugio nella Prudenza fra le virtù cardinali la più duttile e quella di più agevole maneggio. “Il fondo di bontà del nostro caro Tancredi è grande, don Calogero, ed egli sorretto dalla Grazia divina e dalle virtù terrene della signorina Angelica, potrà diventare un giorno un buon sposo cristiano.” La profezia arrischiata ma prudentemente condizionata passò liscia.
“Ma, don Calogero,” proseguiva il Principe masticando le ultime cartilagini del rospo “se è inutile parlarvi dell’antichità di casa Falconeri, è anche, disgraziatamente, inutile, perché lo sapete di già, dirvi che le attuali condizioni economiche di mio nipote non sono eguali alla grandezza del suo nome; il padre di Tancredi, mio cognato Ferdinando, non era quel che si chiama un padre preveggente; le sue magnificenze di gran signore, aiutate dalla leggerezza dei suoi amministratori, hanno gravemente scosso il patrimonio del mio caro nipote e pupillo; i grandi feudi intorno a Mazzara, la pistacchiera di Ravanusa, le piantagioni di gelsi a Olivieri, il palazzo di Palermo, tutto, tutto è andato via; voi lo sapete, don Calogero.” Don Calogero infatti lo sapeva: era stata la più grande migrazione di rondini della quale si avesse ricordo, e la memoria di essa incuteva ancora terrore, ma non prudenza, a tutta la nobiltà siciliana, mentre era fonte di delizia appunto per tutti i Sedàra. “Durante il periodo della mia tutela sono riuscito a salvare la sola villa, quella vicino alla mia, mediante molti cavilli legali ed anche in grazia di qualche sacrificio che, del resto, ho compiuto con gioia tanto in memoria della mia santa sorella Giulia come per affetto per quel caro ragazzo. È una bella villa: la scala è disegnata da Marvuglia, i salotti erano stati decorati dal Serenano; ma, per ora, l’ambiente in miglior stato può appena servire da stalla per le capre.”

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