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4 luglio 2019

da L’oro di Napoli – Giuseppe Marotta

da L’oro di Napoli – Giuseppe Marotta


Gli spaghetti
Sì, nel 1912 erano più panorami di Napoli gli spaghetti che il Vesuvio e il mare. L’avvocatuccio rincasava portandoli sotto il braccio, nel fascio di carta bollata; ogni vicolo pareva un refettorio, pieno di creature col piatto in grembo sulle soglie dei “bassi” nelle piazzette ai Ventaglieri, a Sant’Eligio, al Cavone, a Foria, ai Tribunali, a Port’Alba si vendevano spaghetti anche cotti, c’erano giganteschi fornelli all’aperto con pentole che avrebbero potuto contenere il Louvre; «un due!», «un tre!» gridavano i garzoni porgendo i piatti al cuoco e sottintendendo porzioni da due o da tre soldi: chi non poteva saziarsi di spaghetti ne inghiottiva il fumo e gli tornavano egualmente le forze; gli avventori mangiavano col piatto bollente in una mano e la forchetta di stagno nell’altra, addossati agli antichi muri e vedendo palpitare le ombre, al di là del fuoco e dei lumi, come una cara gonna in attesa. Che semplice luogo, che facile gente. Spaghetti o non spaghetti era il dilemma. Le innumerevoli alternative odierne ci straziano, invece, rendono fatale e certo l’errore. Bisogna riaccostarsi agli spaghetti con la pazienza e l’affetto di un tempo. Usciamo dalle astruse cattedrali delle aspirazioni moderne, piene di simboli e di minacce e di paura; restituiamoci senza problemi alla mite realtà degli spaghetti. Essi sono forse l’unica nostra domanda a cui Dio può rispondere ed ha sempre risposto; sì spaghetti, no spaghetti.
«Ne produciamo milleduecento quintali al giorno» disse il mio amico ligure.

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