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15 luglio 2019

da Una donna – Sibilla Aleramo

da Una donna – Sibilla Aleramo

Mi riscosse un vocìo di donne. Raccontavano. Avevano visto affacciarsi al nostro balcone la figura bianca, scambiata così al sole per una di noi bambine, le avevan fatto cenno di rientrare. La figura s’era sporta, indi abbandonata, piombando di fianco sul terreno.
Entrò il medico. Penetrai con lui nella camera. La mamma era sul letto, senza moto; il babbo a’ suoi piedi, lo sguardo perduto, si torceva le mani. Mi vide, e un gran singhiozzo, il primo ch’io sentissi salire da quel petto, lo abbatté su una sedia, mentre mi traeva fra le ginocchia e nascondeva la faccia sulla mia spalla.
Oh lo smarrimento che mi prese! Il tumulto che scoteva mio padre mi atterriva; ed insieme m’invadeva l’oscuro presagio d’altri momenti atroci come quello…
Non avrei voluto più sciogliermi da quell’abbraccio: per la prima volta provavo la volontà di chiudere gli occhi e di sparire. E non formulavo alcun pensiero, neppur questo: “Vive ancora?”
Viveva. Il capo, il tronco erano stati miracolosamente illesi: solo il braccio sinistro era spezzato. Non riprese conoscenza che dopo tre giorni. Non seppe o non volle dir parola del tragico accaduto: ho il confuso ricordo d’una sera in cui il babbo, a ginocchi, la scongiurò invano, non ottenendo che questa risposta: “Perdonatemi, perdonatemi…” Erano nella stanza anche i bimbi. Il babbo piangeva, e io non so ancora se fossero più strazianti le lacrime di lui o le fioche parole dell’inferma, che uscivano come dall’ombra…
Era stato un momento di pazzia? Volevo crederlo e insieme mi spaventavo di pensarlo. Nella voce del babbo era l’accento appassionato della sincerità, quando chiedeva a sé stesso, sommesso e tremante, nella penombra della camera, che cosa poteva aver provocato quell’accesso di disperazione. La mamma lo guardava silenziosa: avevo il senso strano che ella ne attendesse la spiegazione da lui… E insieme avevo la certezza intima che mio padre non sapeva che cosa rimproverarsi.
Rimase in letto due mesi in un alternarsi di febbri che minacciavano la congestione cerebrale; presente come non mai, e insieme assente, come dopo una suprema rinuncia.
Qualcosa di sinistro s’andava aggravando sulla casa, oltre all’ansia per le vicende della malattia e malgrado la stessa forza di resistenza, ch’era in tutti noi. I bimbi non comprendevano, subivano semplicemente la tristezza dell’ambiente; io notavo con disagio, poi con spavento, nel lentissimo risveglio di lei, certi torpori insistenti, certe lacune della memoria, certi eccessi nelle manifestazioni di affetto o d’antipatia per i circostanti. Ma avendo preso il governo della casa e continuando in certe ore ad occuparmi del mio impiego, non tralasciando le mie letture e la mia corrispondenza, ero occupata in modo da non poter troppo indagare le sensazioni nuove e varie che si alternavano in me. Compiangevo mio padre, prodigavo alla mamma una tenerezza vigile, quasi a scongiurare le manifestazioni che temevo dalla sua anima malata. Ero certa ora d’amarli entrambi, ma con una nuova inquietudine e con la sensazione, che sempre più mi penetrava, di essere ormai sola, con la mia anima, e ignorando due anime che amavo, che compiangevo e che temevo di giudicare.
Alla fine dell’inverno la mamma era quasi del tutto ristabilita. Solo il braccio rotto, che aveva dovuto venir ricomposto due volte per l’inabilità del chirurgo, restò infermo, colle articolazioni della mano impacciate. Invecchiata, estenuata, aveva un’aria ancor più dimessa e avvilita, con quella mano che la più piccola delle mie sorelline baciava ogni poco teneramente, facendo splendere d’una lagrima gli stanchi occhi di lei. Pareva tornata bimba, una bimba timorosa che non sa liberarsi dal ricordo di un suo errore.
Il babbo, passate le settimane del pericolo, aveva vinto lo smarrimento, appariva di nuovo padrone di sé. E non osando interrompere i lunghi silenzi in cui s’immergeva, io pensavo… Per la prima volta cercavo nel passato, scoprivo degli indizi, li collegavo. I dissensi che avevo intuito nella vita de’ miei cari mi apparivano ora diversi da quelli che talvolta avveravansi tra il babbo e me; capivo che doveva esserci qualcosa di ben più profondo, qualcosa di fatale e d’invincibile come mi pareva che fossero le mie antipatie contro certe persone e certe cose… Il babbo doveva averla amata tanto quella povera cara, e ora ne’ suoi isolamenti silenziosi egli rievocava chi sa quali ricordi; ma sentivo che dovevano essere soltanto ricordi.
E non riuscivo a veder nell’avvenire stabilirsi un amore nuovo e più forte fra loro e in tutta la famiglia.
Egli era con la mamma pieno di riguardi, condiscendente, quasi carezzevole; evitava le antiche sfuriate; ma io percepivo una punta di rassegnazione nel modo con cui accettava la melanconia persistente di lei, di lei che scoprivo oppressa dal desiderio timido e accorato d’un ravvicinamento.
Un giorno, la nostra casa era piena di sole, essi restarono chiusi più d’un’ora nella stanzetta ove adesso il babbo dormiva solo: quando ne uscirono, mia madre aveva il volto soffuso d’un color che da tanto tempo non le vedevo, e insieme d’un sorriso vago, un sorriso di fanciulla felice. Mi guardò come se non mi riconoscesse. Il babbo invece s’annuvolò, evitando il mio sguardo.
Altre volte la vista della mamma appongiantesi stanca sulla spalla del babbo, mi turbò, nelle settimane seguenti. Il babbo sfuggiva di trovarsi solo con lei, me ne persuasi; sfuggiva noi tutti, la casa, quasi insensibilmente.
La primavera scorreva lenta: nei crepuscoli tepidi ed avvincenti io mi sentivo talora invadere da un bisogno torturante di pianto, di dissolvimento: che cos’era? Dov’era andata la mia balda adolescenza? Perché mio padre si allontanava così dalla mia anima? Non mi sentiva soffrire, non mi amava, ah, certo non mi amava più! Stavo io per dubitare di lui, di me stessa, della vita?
Pure la giovinezza incosciamente reagiva. Continuavo a lavorare, a scrivere lunghe lettere, piene d’una strana austerità, alle mie amiche; e sorridere con una punta di civetteria ingenua agli operai piemontesi di cui qualcuno mi destava una simpatia esagerata, per contrasto forse coll’uggia che mi davano persone e cose del paese.

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