La casa in collina – Cesare Pavese
Dino arrivò col suo bastone, zufolando, preceduto da Belbo. Disse che Giulia non gli aveva detto niente, che aveva capito da sé che l’aspettavo. Gli chiesi: — Cosa hai sulla faccia? — e tenendolo fermo, lo scrutai, lo toccai — gli occhi, le palpebre, il profilo. Ma si può dire che un bambino rassomigli a un adulto? Ne avevo riso tante volte. Pagavo anche questa. Dino girava gli occhi inquieto, gonfiava le gote, sbuffava. Questo, se mai, questo ostentato riluttare, somigliava a qualcosa di me. Cercai di rivedermi bambino in quella smorfia. Pensai che anch’io avevo avuto un collo gracile così, quando giravo nelle vigne in questi paesi.
Poi ce ne andammo. — Stamattina arriviamo proprio in cima —. Gli raccontai di quando avevo pigiato l’uva ai miei paesi. — Tutti, gli uomini e i ragazzi, bisogna che si lavino i piedi. Ma chi va scalzo li ha già puliti, più di noi.
— Anch’io dei giorni entro scalzo nei prati, — disse Dino.
— Tu vali poco, a pigiar l’uva. Pesi poco. Quanti anni hai, giusti?
Me lo disse. Era nato alla fine di agosto.
Raggiungendo lo stradone sulla vetta, andammo spediti. Era il borgo del Pino. Di qui, dai balconi del le case che strapiombavano, s’intravedeva la pianura di Chieri, sconfinata, fumosa.
— Mio padre, — dissi a Dino, — faceva tutte le mattine prima di giorno una strada così. La faceva in biroccino per andare ai mercati.
Dino trottò senz’aprir bocca, menando il bastone sull’asfalto.
— Tu non l’hai conosciuto tuo padre? — dissi.
— La mamma, l’ha conosciuto, — rispose.
— Non sai chi fosse?
Mi guardò fiducioso e impaziente. Era chiaro che non ci aveva mai pensato.
— Se non c’è dev’essere morto, — gli dissi. — Sulla pagella non c’è il nome di tuo padre?
Dino pensò, guardando avanti. — Dice solo la mamma, — rispose con una smorfia. — Sono orfano, io.
Mettemmo il naso nella porta dell’osteria. C’era un’aria domenicale. Sfaccendati che giocavano a biliardo ci guardarono, tacquero. — Politica, — bisbigliai a Dino. — Vuoi pane e salame?
Dino corse al biliardo. Io girellai fino al finestrone di fondo. Di là si vedeva la pianura assolata. I giocatori, osservati da Dino, s’eran rimessi a giocare, parlottando. Si passavano accanto menando le stecche.
Parlavano d’altro. Eran ragazzi di campagna. Qualcuno aveva la camicia nera.
— Chi vuoi che sia? — disse un biondo, infagottato. — Per tutti è domenica.
Risero allegri, troppo allegri, a disagio. Ci pensai l’indomani, ci pensai d’improvviso: quella domenica di sole fu l’ultima volta che, arrivando un estraneo, bisognò cambiar discorso all’osteria.
Fin che durò la breve estate, almeno. Ma nessuno di noi lo sapeva.
Dino adesso mordeva il suo pane e seguiva le stecche. Era entrato anche Belbo. Levarli di là fu difficile. Belbo fiutava sotto i tavoli. Dissi a Dino che andavo e lo lasciavo a ubbriacarsi. Mi raggiunsero correndo, quasi fuori del paese.
Quel pomeriggio venne l’Egle col fratello ufficiale pilota, un bel ragazzo magro e moro che dava la mano facendo l’inchino. Scesi dalla mia stanza, alle voci, e li trovai nel frutteto con le mie vecchie. Il giovanotto era seccato, disgustato; s’era messo in borghese; parlava di voli sul mare e di gabbiani. — Ditelo pure, — mi diceva, — noi aviatori siamo i fessi. Siamo sempre di scena. Per poco la guerra non l’abbiamo voluta noialtri.
— La fate soltanto voialtri, siete ingenui, — interruppe la sorella.
Dino arrivò col suo bastone, zufolando, preceduto da Belbo. Disse che Giulia non gli aveva detto niente, che aveva capito da sé che l’aspettavo. Gli chiesi: — Cosa hai sulla faccia? — e tenendolo fermo, lo scrutai, lo toccai — gli occhi, le palpebre, il profilo. Ma si può dire che un bambino rassomigli a un adulto? Ne avevo riso tante volte. Pagavo anche questa. Dino girava gli occhi inquieto, gonfiava le gote, sbuffava. Questo, se mai, questo ostentato riluttare, somigliava a qualcosa di me. Cercai di rivedermi bambino in quella smorfia. Pensai che anch’io avevo avuto un collo gracile così, quando giravo nelle vigne in questi paesi.
Poi ce ne andammo. — Stamattina arriviamo proprio in cima —. Gli raccontai di quando avevo pigiato l’uva ai miei paesi. — Tutti, gli uomini e i ragazzi, bisogna che si lavino i piedi. Ma chi va scalzo li ha già puliti, più di noi.
— Anch’io dei giorni entro scalzo nei prati, — disse Dino.
— Tu vali poco, a pigiar l’uva. Pesi poco. Quanti anni hai, giusti?
Me lo disse. Era nato alla fine di agosto.
Raggiungendo lo stradone sulla vetta, andammo spediti. Era il borgo del Pino. Di qui, dai balconi del le case che strapiombavano, s’intravedeva la pianura di Chieri, sconfinata, fumosa.
— Mio padre, — dissi a Dino, — faceva tutte le mattine prima di giorno una strada così. La faceva in biroccino per andare ai mercati.
Dino trottò senz’aprir bocca, menando il bastone sull’asfalto.
— Tu non l’hai conosciuto tuo padre? — dissi.
— La mamma, l’ha conosciuto, — rispose.
— Non sai chi fosse?
Mi guardò fiducioso e impaziente. Era chiaro che non ci aveva mai pensato.
— Se non c’è dev’essere morto, — gli dissi. — Sulla pagella non c’è il nome di tuo padre?
Dino pensò, guardando avanti. — Dice solo la mamma, — rispose con una smorfia. — Sono orfano, io.
Mettemmo il naso nella porta dell’osteria. C’era un’aria domenicale. Sfaccendati che giocavano a biliardo ci guardarono, tacquero. — Politica, — bisbigliai a Dino. — Vuoi pane e salame?
Dino corse al biliardo. Io girellai fino al finestrone di fondo. Di là si vedeva la pianura assolata. I giocatori, osservati da Dino, s’eran rimessi a giocare, parlottando. Si passavano accanto menando le stecche.
Parlavano d’altro. Eran ragazzi di campagna. Qualcuno aveva la camicia nera.
— Chi vuoi che sia? — disse un biondo, infagottato. — Per tutti è domenica.
Risero allegri, troppo allegri, a disagio. Ci pensai l’indomani, ci pensai d’improvviso: quella domenica di sole fu l’ultima volta che, arrivando un estraneo, bisognò cambiar discorso all’osteria.
Fin che durò la breve estate, almeno. Ma nessuno di noi lo sapeva.
Dino adesso mordeva il suo pane e seguiva le stecche. Era entrato anche Belbo. Levarli di là fu difficile. Belbo fiutava sotto i tavoli. Dissi a Dino che andavo e lo lasciavo a ubbriacarsi. Mi raggiunsero correndo, quasi fuori del paese.
Quel pomeriggio venne l’Egle col fratello ufficiale pilota, un bel ragazzo magro e moro che dava la mano facendo l’inchino. Scesi dalla mia stanza, alle voci, e li trovai nel frutteto con le mie vecchie. Il giovanotto era seccato, disgustato; s’era messo in borghese; parlava di voli sul mare e di gabbiani. — Ditelo pure, — mi diceva, — noi aviatori siamo i fessi. Siamo sempre di scena. Per poco la guerra non l’abbiamo voluta noialtri.
— La fate soltanto voialtri, siete ingenui, — interruppe la sorella.
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