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26 agosto 2019

da Disonora il padre - Enzo Biagi

da Disonora il padre - Enzo Biagi

Una notte passò Davide. “Ho fretta,” disse “ma non volevo andarmene senza salutarti. Non so nulla dei miei, ma è finita. Cercherò di raggiungere l’Inghilterra, e se posso l’America.”
Mi sentii, all’improvviso, dall’altra parte, coi suoi nemici. “Davide,” mi scusai “qui nessuno ce l’ha con te, perfino mio padre dice che anche Gesù era ebreo”
“Lo so, ma non ne resterete fuori, nessuno ritroverà mai più certe cose che contavano, e non sapevamo quanto valevano. In ospedale hanno fatto una colletta per comperarmi il biglietto di viaggio; anche il primario di chirurgia, che è presidente dell’Istituto, di cultura fascista, ha voluto contribuire.”
“Cosa farai?”
“Mio nonno è sepolto in un paese che è diventato russo, mio padre e mia madre sono scomparsi in una Polonia che non esiste più, ho una sorella in Palestina. Voi dite che è una condanna divina: il giudeo deve espiare.”
“Io non lo penso, Davide.”
“Se ci riesci, non farti ammazzare.”
Lo accompagnai un po’. Bevemmo qualcosa nel caffè accanto al Teatro Verdi. Due ragazze della compagnia di Vivienne D’Arys inzuppavano la ciambella nel caffelatte; sorrisero inutilmente.
“Tutta la colpa è di Abramo” disse Davide. “Ormai verrà la fine del mondo.”
Ci abbracciammo, poi io ritornai in redazione.
Trovai il professore più entusiasta del solito. “Sotto con la Danimarca e la Norvegia, poi toccherà alla Francia, e poi sarà la volta dell’Inghilterra. Non possiamo aspettare, l’Asse dev’essere una realtà armata. Le democrazie sono sfinite e corrotte. È l’ora dei popoli forti.”
Ragionava come l’ex avanguardista cavalleggero Giuseppe Passadori, detto Pino. “Anche lei” dissi timidamente “ha più o meno le idee di quel rumeno, di Codreanu: gli eletti, i puri, poi gli altri, quelli che debbono servire. Gli israeliti, ad esempio.”
“Io credo nella razza come fatto di cultura, e anche di sangue. Ma non sono un mistico fanatico; sto preparando, figurati, un saggio su Epicuro. E lo sai cosa predicava il filosofo greco?”
“Mangia, bevi e chiava” disse subito il capo.
“Be’, così è un po’ riassunto. Diceva: “Nessun piacere in sé è un male; ma talune cose atte a procurare gioia, recano più danno che gaudio”.”
Intervenne Paolo Maria Fabbri; ascoltava attorcigliandosi i capelli, pareva distratto: “Heine di che razza è? Ed Einstein? Umana, io penso. Starace è invece un fiore della nostra stirpe? Mi hanno detto che c’è chi, chiamandosi Levi, per salvare la pelle, deve inventare una mamma che la dava via, o un battesimo che non c’è mai stato. mi illumini lei che è un dotto: questo era già previsto dal diritto romano?”.
“Ma, caro fabbri, lo sa o no che la finanza internazionale è nelle loro mani? Ignora forse che Marx era circonciso? E anche Trockij? Lei ritiene che per un semita, la sua patria sia l’Italia?”
“Io sono di Rovigo, e non posso capire. Ma so che a Ferrara, tra gli squadristi, ci sono manipoli di camice nere che ancora aspettano l’arrivo del Redentore. Invece ecco spuntare Farinacci, che vuole chiudere le sinagoghe, cacciare tutti i fedeli, ex camerati compresi. Non le pare una porcata bruciare i libri degli autori così detti proibiti, Feuchtwanger, o Mann, o Gide? ha un’idea degli ammessi? E non le sembra ridicolo che Moravia debba firmare Pseudo?”
La discussione stava prendendo un tono inopportuno; ma Antonelli la buttò in vacca alla svelta, ripetendo lo slogan che era stampato in tutti i locali pubblici. “Qui non si fanno discussioni di alta politica o di alta strategia; qui si lavora”.

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