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19 settembre 2019

da Il libro dell’inquietudine – Fernando Pessoa

 Riccardo-Francalancia - Interno-melanconico
da Il libro dell’inquietudine – Fernando Pessoa

121. La rinuncia è liberazione. Non volere è potere. Cosa altro mi può dare la Cina che la mia anima non mi abbia già dato? E, se la mia anima non me lo può offrire, come potrà offrirmelo la Cina, se è con la mia anima che vedrò la Cina, se la vedrò? Potrei andare a cercare la ricchezza in Oriente, ma non la ricchezza dell’anima, perché la ricchezza della mia anima sono io, ed io sto dove sto, con o senza Oriente. Capisco che viaggi chi è incapace di sentire. Per questo i libri di viaggio sono sempre così poveri come libri di esperienza, e valgono soltanto per l’immaginazione di chi li scrive. E se chi li scrive ha immaginazione, ci può stupire sia con la descrizione minuziosa, come quella delle insegne fotografiche, di paesaggi che ha immaginato, sia con la descrizione, necessariamente meno minuziosa, dei paesaggi che ha creduto di vedere. Siamo tutti miopi, meno che verso l’interiorità. Solo il sogno vede con lo sguardo. In fondo, nella nostra esperienza della terra vi sono solo due cose: l’universale e il particolare. Descrivere l’universale significa descrivere ciò che è comune ad ogni anima umana e a tutta l’esperienza umana – il cielo vasto, con il giorno e la notte che in esso e da esso si succedono; lo scorrere dei fiumi – tutti della stessa acqua sorella e fresca; i mari, le montagne con la loro tremula estensione, che custodiscono la maestosità dell’altezza nel segreto della profondità; i campi, le stagioni, le case, i volti, i gesti; l’abito e i sorrisi; l’amore e le guerre; gli dèi, finiti e infiniti; la Notte informe, madre dell’origine del mondo; il Fato, mostro intellettuale che è tutto… Nel descrivere questo, o qualcosa di universale come questo, parlo con l’anima il linguaggio primitivo e divino, l’idioma adamitico che tutti comprendono. Ma quale linguaggio frammentario e babelico parlerei, allorché descrivessi l’Ascensore di Santa Justa, la Cattedrale di Reims, i pantaloni alla zuava, il modo in cui nella regione di Trás-os-Montes si pronuncia il portoghese? Queste cose sono accidenti superficiali; si possono sentire con il movimento ma non con il sentire. Quello che nell’Ascensore di Santa Justa è universale è la meccanica che facilita il mondo. Quello che nella Cattedrale di Reims è vero non è la Cattedrale e neanche Reims, ma la maestà religiosa degli edifici consacrati alla conoscenza della profondità dell’animo umano. Quello che nei pantaloni alla zuava è eterno è la finzione colorata degli abiti, linguaggio umano che crea una semplicità sociale che a suo modo è una nuova nudità. Quello che nella pronuncia locale è universale è il timbro casalingo delle voci di persone che vivono in modo spontaneo, la diversità di tutti gli esseri, la successione variegata dei modi, le differenze dei popoli, e la vasta varietà delle nazioni. Eterni viandanti di noi stessi, non esiste altro paesaggio se non quello che siamo. Non possediamo nulla, perché non possediamo neppure noi stessi. Non abbiamo niente perché non siamo niente. Verso quale universo potrei mai tendere la mano? L’universo non è mio: sono io.

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